Il Semangàt: l’Anima delle Cose

In Malesia sono convinti che anche le cose posseggano un’anima in parte loro, in parte assorbita dalle persone che li posseggono: quest’anima la chiamano Semangàt.

A causa di questa gli oggetti possono – come le persone – offendersi e diventar pericolosi, o essere contenti e portare fortuna.

Lo scrittore Vittorio G. Rossi raccontò la storia di Vivian, un suo amico inglese meteorologo, il quale visse per cinque anni in Malesia con un’indigena che si chiamava Tempuròng.

Lei lo amava moltissimo.

Quando Vivian venne trasferito in Inghilterra – un po’ come Pinkerton fece con Butterfly “la moglie giapponese” – partì da solo, abbandonando per sempre e senza tanti scrupoli Tempuròng, la moglie malese.

Passarono gli anni.

Vivian si era sposato con una donna inglese; non le raccontò mai la storia di Tempuròng, per lui ormai era acqua passata.

La moglie un giorno si ammalò gravemente; soffriva moltissimo sino a quando un giorno, semi impazzita per il dolore fisico, si suicidò piantandosi in petto un kriss  , un pugnale malese che faceva parte della collezione di suo marito, conservata in una vetrinetta.

Ma la cosa strana fu che, su ben 40 kriss presenti nella vetrinetta, la donna scelse per morire proprio quello che la disperata Tempuròng aveva dato a Vivian come dono d’addio il giorno della sua partenza dalla Malesia.

Il Semangàt del kriss aveva vendicato, dopo più di vent’anni e in un altro continente, l’amore tradito di Tempuròng.

Spesso gli oggetti ci sono istintivamente simpatici o antipatici.

O a volte ci riservano sorprese, “comportandosi” in modo strano, scomparendo e riapparendo quando pare a loro; rompendosi in un momento particolare o creando situazioni speciali…

Ciò accade soprattutto con cose che sono vecchie se non antiche, che sono magari in precedenza appartenute a qualcun altro.

Che hanno già una storia: un Semangàt, insomma.

E a voi?

Capita mai di dire o pensare:
“Questa casa sembra non mi accetti”, “Questo anello mi porta fortuna”,
“Quando indosso questo indumento mi succede sempre qualcosa di speciale”
o cose simili?

possedete un oggetto che secondo voi ha un Semangàt, positivo o negativo che sia?

© Mitì Vigliero

Le Ricette di Casa Placida: ‘A Fugassa co-e Purpe. Antico “pan dei morti” Ligure

La Focaccia con la Polpa d’Olive

Chiamata Fugassa co-e purpe nel Levante ligure mentre nel Ponente è la Fugassa co-a murcia, nacque per utilizzare sino all’ultima briciola le olive appena spremute nei frantoi e, per tradizione e periodo, un tempo si trovava dai fornai solo a novembre, essendo un cibo tipico del periodo “dei Morti.

Il grande scrittore Vittorio G. Rossi (1889-1978) così raccontava i suoi ricordi d’infanzia a Santa Margherita Ligure:

“Quando c’era la Novena dei Morti, mia madre ci portava alla novena; era ancora notte, non c’erano neanche i primi segni dell’alba; si usciva nell’aria fredda di novembre, gli occhi pieni di piombo, alzarsi dormendo, fare i primi passi dormendo, imbattersi in quell’aria, sentire come una ferita e poi entrare nella chiesa coi lumi e le preghiere.
E poi lei ci portava nel forno appena aperto, c’era la “focaccia con le polpe”.
Era calda, nerastra, piena d’olio; c’erano dentro i piccoli pezzi di polpa di olive spremute nel frantoio e adesso ogni tanto mi tornano quelle mattine buie di novembre, quella luce tremolante che faceva chiaro ai morti e il sapore oliato e caldo della focaccia, e mia madre che amministrava quelle nove mattinate di cerimonia funebre, e riuniva i vivi e i morti, e le preghiere e la focaccia, come se tra il mondo di là e quello di qua lei sapesse senza dubbio alcuno quello che c’era, e come bisognava comportarsi” (da Maestrale, Mondadori, 1976 )

Se volete provare a farla in casa, la ricetta è questa:

1 kg di farina
lievito di birra
150 gr di olive nere taggiasche in salamoia o un barattolo del cosiddetto “patè d’olive”
olio
sale fine.

Se non usate il paté (di cui ne bastano 3,4 cucchiai abbondanti) , snocciolate le olive e pestatene nel mortaio (o col mixer) la polpa; mettetela in una ciotola unendo 2 cucchiai scarsi d’olio.

Impastate la farina unendo alla pasta la polpa d’olive e un po’ di sale. Lasciate lievitare a lungo, anche tutta una notte.

Disponete uniformemente la pasta – che risulterà quasi nera – sulla teglia unta (se la preferite più alta, usate pure una tortiera rotonda) , versate ancora un filo d’olio e con la punta delle dita schiacciate la pasta producendo anche qui le caratteristiche fossette della focaccia ligure.

Infornare a forno molto caldo, 240° e tirarla fuori quando è dorata (se alta, fare la prova stecchino); servire calda

© Mitì Vigliero

Signori, vi presento la Focaccia genovese: Storia, Curiosità e Poesia

Tutta pinn-a d’ombrisalli
ùmia d’eûio de Dian,
pe-i scignuri e pe-i camalli…
(Costanzo Carbone)
Tutta piena d’ombelichi,
umida d’olio di Diano,
per i signori e per i facchini…

Per i genovesi la focaccia classica, quella all’olio, è un mito, un simbolo della città esattamente come la Lanterna; in Argentina esistono numerose panetterie con su scritto, come insegna, “Fugassa“: gli argentini hanno così assimilato il termine genovese da dichiararlo tipico del loro idioma, tanto che compare persino sui loro vocabolari.
In realtà sia la parola che il “prodotto” furono introdotti dagli immigrati genovesi di quasi centosessant’anni fa, e i loro eredi continuano a fare una focaccia buonissima.

La focaccia è sempre stata la prima colazione di chi si svegliava all’alba; lo è tuttora per molti, anche per chi si sveglia più tardi: e assaporare lei, condita di olio e sale, pucciata nel caffelatte è una sensazione speciale.

Segue l’uomo dalla prima infanzia: a Genova le mamme danno ai bambini piccolissimi un pezzetto di focaccia da mangiare, anche se sono completamente privi di denti; fa bene alle gengive e stimola la dentizione meglio del ciuccio.
Un etto di focaccia è la colazione che gli studenti, da generazioni, fanno prima di entrare a scuola; un etto di focaccia è lo spuntino degli scolari nell’intervallo delle lezioni; un etto di focaccia è l’aperitivo che i ragazzi consumano nel tragitto scuola-casa. Poi a casa, a pranzo, non mangiano perché sono inappetenti e le mamme si preoccupano. E infine un etto di focaccia appena sfornata è la merenda delle ore cinque, come il tè degli inglesi.

Ci fu un tempo, intorno al 1500, in cui veniva consumata persino in chiesa durante i matrimoni, al momento della benedizione degli sposi; un modo goloso per esprimere la gioia di una nuova unione che si sperava feconda.
Però l’amore per questo cibo nei riti religiosi prese un po’ la mano ai cittadini, tanto che ne facevano scorpacciate in chiesa persino durante i funerali; e al funebre odore dell’incenso e dei ceri si mescolava quello allegro e oserei dire sensuale della focaccia, alle meste preghiere il ruminare soddisfatto dei fedeli.
Il vescovado minacciò scomuniche a chi avesse continuato a mangiar focaccia in chiesa e l’usanza terminò, ma scommetto a malincuore.

Il profumo della focaccia può far commuovere sino alle lacrime un ligure che viva lontano da casa; non è il solito profumo di pane: è il profumo di focaccia, tutto diverso, unico.
La focaccia può ispirare pensieri sublimi e poetici anche a chi ha l’anima di coccio.
E non credo esista persona al mondo che non ami la focaccia; basta assaggiarla una volta, per innamorarsene.

Vittorio G. Rossi, il grande giornalista scrittore nato a Santa Margherita, in Maestrale (Mondadori, 1976) così scriveva:

Essa è la nostra focaccia ligure, niente a che fare con le pizze cosparse di condimenti; essa è una delle cose più semplici che ci sono, semplice come l’acqua di sorgente; è pasta di farina, sale e olio; è cotta nel forno su una lamiera di ferro triangolare; ha lo spessore di un dito mignolo, anche di meno; con le punte delle quattro dita di una mano e le quattro dell’altra, il fornaio la ricopre di buchi; in essi si raccoglie l’olio d’oliva come le lacrime di un pianto, ma è un pianto di gioia.
La focaccia bisogna mangiarla appena esce dal forno; allora brucia le mani, ha tutto il suo olio vivo e sano e caldo, e bisogna mangiarla camminando lentamente, come se si pensasse alla fondazione del mondo; e non si deve pensare a niente, solo alla focaccia che si sta mangiando.
E se si è in vista del mare, è meglio ancora: la focaccia allora si condisce anche di mare
.”

QUI un video, con la preparazione passo passo. E se volete provare a farla velocemente a casa:

500 gr di pasta di pane già lievitata; sale grosso; olio extravergine d’oliva.

La teglia classica in cui si cuoce la focaccia si chiama “lama“, contenitore rettangolare grande grande, coi bordi molto bassi; in casa si può usare una semplice teglia da pizza.
E sarebbe perfetto il forno a legna, ma non si può pretendere troppo dalla vita…
Allora: disporre uniformemente e in modo sottile (piuttosto fatene due, di teglie) la pasta sulla teglia unta, spargendo qua e là dei granellini di sale grosso; versare l’olio e con la punta delle dita (indice, medio, anulare e mignolo di ambo le mani) schiacciare la pasta producendo le classiche fossette (gli “ombrisalli“, ombelichi).
Infornare a 240° per 25 minuti.
Togliere la teglia dal forno, spennellare la focaccia con un poco d’olio e servire.

Ma prima di gustare, annusarla profondamente pensando intensamente al mare…

© Mitì Vigliero