Venezia: Storia del Ponte delle Tette e Perché si Dice “Carampana”

(foto © Enrico Oliari)

Nel 1319 morì a Venezia l’ultimo discendente della ricca famiglia dei Rampani; poiché era senza eredi e non aveva fatto testamento, tutti i suoi beni mobili e immobili passarono alla Serenissima, che li gestì come sua proprietà.

Una parte di questi edifici si trovava a San Cassiano, tra il sestiere di Santa Croce e quello di San Polo; nel 1421 il Governo, esasperato dagli sciami di “pubbliche meretrici” che a qualunque ora del giorno e della notte imperversavano in città, decise di trasferirle in blocco proprio nelle case ereditate dal Rampani – e perciò dette Ca’ Rampani – facendone delle “case chiuse”.

Fu così che le nuove residenti vennero chiamate sbrigativamente – anche nei documenti ufficiali – Carampane e perciò il termine divenne sinonimo di prostituta.

Il Governo emanò regole severe riguardanti il loro comportamento quotidiano.

Potevano uscire da casa, ma non allontanarsi dai ristretti confini del sestiere di “lavoro” e alla terza campana della sera dovevano tornare nei loro alloggi, pena 10 frustate.

Non potevano abbordare clienti nei periodi sacri (Natale, Quaresima, Pasqua), pena frustate 15; non potevano frequentare le osterie; in centro città potevano recarsi solo di sabato, indossando però un vistoso fazzoletto giallo al collo come segno di riconoscimento e la domenica, giorno del Signore, dovevano barricarsi nelle case gestite dalla “matrona”, che amministrava la contabilità e pagava regolamente le tasse.

Il loro quartiere oggi verrebbe definito a luci rosse. Per attirare la clientela, stavano affacciate per ore alle finestre delle loro abitazioni mostrando il petto completamente nudo; infatti il ponte che unisce Santa Croce a San Polo si chiama Ponte delle Tette,  visto il “paesaggio” che si offriva ai passanti (e Rio delle Tette si chiama il relativo canale).

In realtà pare che la morigerata Serenissima incoraggiasse l’esibizionismo delle Carampane per combattere l’omosessualità assai diffusa a Venezia tra il XV e il XVI sec., diventando un prolema di stato: i tribunali dell’epoca lavoravano indefessamente per punire le violenze nate da “atti contro natura”, decapitando e bruciando i malcapitati colpevoli.


(foto ©James Macdonald)

Carampana” oggi significa solo (cfr De Mauro Paravia) “donna vecchia e allampanata”, caratteristica fisica quest’ultima che risale proprio a quel periodo.

Infatti allora le prostitute, oltre ad esibire capelli di quell’improbabile colore detto  “rosso veneziano”,  indossavano pure i calcagnini (o chopine), caratteristici zoccoli con la zeppa alta quasi 50 cm, che le rendeva mezzo metro più alte delle altre donne .

E nel Settecento, secolo particolarmente disinibito dal punto di vista morale, grazie a nuove leggi   che volevano incrementare il turismo nella città,  le prostitute giovani e belle poterono tornare indisturbate ad esercitare nel cuore di Venezia mentre a Ca’ Rampani rimasero solo le più anziane, che lì vivevano relegate come in ospizio continuando – se potevano – il loro antico mestiere a modicissimi prezzi imposti dal Governo, però con l’assoluta proibizione di mettere il naso per strada perché  sgradevoli alla vista.

© Mitì Vigliero

Il Cibo dei Vikinghi

Come lo stoccafisso arrivò in Italia


(immagine tratta da qui)

Stoccafisso” deriva dall’antico olandese “stokvish”, composto da “stock” (bastone) e “vish” (pesce); pesce (merluzzo) duro e rigido come un bastone, quindi, essiccato all’aria aperta e gelida delle terre del Nord.
Baccalà” invece ha un’etimologia più incerta, forse deriva dal basco “bacalao”: ad ogni modo è sempre merluzzo, ma conservato sotto sale.

Sia lo stoccafisso che il baccalà, diffusissimi nelle nostre cucine regionali, contribuirono per secoli a sfamare intere generazioni, fornendo spesso lo jodio mancante a chi abitava lontano dal mare.

Ma forse non tutti sanno che lo stoccafisso giunse in Italia a causa di un naufragio.

Era il 25 aprile del 1431 quando il nobile veneziano Piero Querini salpò da Creta, allora dominio della Serenissima; voleva raggiungere le Fiandre passando lo stretto di Gibilterra, per scambiare il suo carico di 800 barili di malvasia con stoffe, lana e stagno.

Ma il 17 dicembre, al largo delle coste una terribile tempesta fece colare a picco il suo veliero; lui e la ciurma si salvarono a bordo di due scialuppe, vagando raminghi sulle onde per quasi un mese sino a quando, allo stremo delle forze, arrivarono a una terra ben poco ospitale, ventosissima e piena di ghiacci.
Erano approdati senza saperlo ben oltre il Circolo Polare, e precisamente a Røst, isoletta norvegese che fa parte dell’arcipelago delle Lofoten.

Qui trascorsero circa quattro mesi, ospitati nelle case dei pescatori, persone – come scriveva il Querini, estremamente gentili e socievoli:

Questi di detti scogli sono uomini purissimi e di bello aspetto, e cosí le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo: e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere medeme dove dormivano mariti e moglie e le loro figliuole alloggiavamo ancora noi, e nel conspetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto; e avendo per costume di stufarsi il giovedí, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d’un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi con gl’uomini.”

Dormivano tutti insieme, marinai italiani e cretesi, pescatori norvegesi e le loro donne, ma il Querini non temeva alcuno “scandolo” poiché, come scrisse sul suo diario:

I 120 abitanti dell’isola sono tutti cattolici fedelissimi e devoti, senza alcuna lussuria, tanto è la region fredda e contraria a ogni libidine”.

E difatti alle Lofoten molti abitanti hanno tuttora tratti marcatamente mediterranei.

Piccanti pettegolezzi a parte, a noi interessa che un bel dì il nobiluomo scrisse alla Serenissima la descrizione del locale metodo di conservazione del pesce:

I stocfisi seccano al vento e al sole e perché sono di poca humidità grassa, diventano duri come legno. Quando li vogliono mangiare, li battono col roverso della mannara che li fa diventare sfilati come nervi, poi compongono butirro e spetie per dargli sapore, et è grande et inestimabile mercanzia”.

E quando, nel maggio del 1432riuscì a tornare in patria, si portò dietro un gran numero di “stocfisi” immettendoli sul mercato italiano col nome “cibo dei Vikinghi”.

Il successo fu immediato.

Lo vollero le flotte come provvista da cambusa, vista la sua sicurezza di conservazione. Lo vollero le popolazioni montane, che di pesce marino, pòrelle, ne mangiavan pochino.

Ma il vero boom si ottenne nel 1561 col Concilio di Trento e l’istituzione obbligatoria dei “giorni di magro”, quando l’Arcivescovo di Uppsala e primate di Svezia, Olao Magno, mise in atto una vera e propria operazione di marketing rivolta a promuovere – per il bene dell’anima dei fedeli e dell’economia della sua patria, una delle massime esportatrici – l’uso dello stoccafisso su tutte le mense cattoliche.

© Mitì Vigliero

Perché si dice: Hotel Excelsior

Nel 1881, alla Scala di Milano, in piena Belle Epoque, venne messo in scena uno spettacolare balletto intitolato “Ballo Excelsior”, la cui musica divenne famosissima; rappresentava allegoricamente la vittoria della civiltà meccanica sull’oscurantisimo, con entusiasmo per le nuove scoperte e i progressi fatti: dal battello a vapore alla pila, dal canale di Suez al traforo del Fréjus.

In latino “excelsus” significa “più alto; di classe superiore”, e grazie proprio al successo enorme del balletto, che richiamò in città moltissime persone venute da ogni dove per vederlo, in suo omaggio furono molti gli alberghi  che sino ai primi del Novecento decisero di chiamarsi così, intendendo offrire ai clienti un servizio “più di classe, più distinto, più alto”, a partire ovviamente dai prezzi.

Celeberrimi sopravvissuti di quest’epoca sono il Grand Hotel Excelsior  del Lido di Venezia e l’Excelsior Palace Hotel di Rapallo.

©Mitì Vigliero

E a proposito di cose “più alte” e sublimi, qui c’è l’Ode alla Focaccia