Natale, Tradizioni Dimenticate: Il Ceppo

 

Un tempo – quando in ogni casa vi era un camino – a Natale si svolgeva il rituale del “ceppo” (o ciocco), tradizione d’origine nordica legata al dio Thor e alla sua pianta sacra, la quercia;. la luce emanata dal ciocco di legno bruciante per tutta la notte durante il solstizio d’inverno, serviva ad allontanare la negatività del buio e del freddosimboleggiando il calore vitale del sole.
Il Cristianesimo quindi vide nel ciocco – “albero della vita e del sole” – la figura  vitale del Cristo.
Il rito variava da regione a regione.

Milano, ad esempio, il capofamiglia prendeva fra le braccia il ciocco come fosse un bambino e lo poneva nel camino accendendolo con una fascina di ginepro benedetto.

Poi versava del vino in un bicchiere, ne rovesciava un po’ sulle fiamme, beveva un sorso del rimanente e lo passava a tutti i membri della famiglia; a quel punto gettava una moneta sul ceppo ardente e ne donava un’altra a tutti i familiari.

Infine da tre grandi pani (antenati del panettone) tagliava una fettina che veniva messa accuratamente da parte per essere data come “medicina” a chi, durante l’anno, si ammalava.

In Romagna invece, prima di recarsi alla Messa di Mezzanotte, si ponevano di fronte al camino ove ardeva “el zòc ed Nadèl” tre sedie vuote e si lasciava la tavola apparecchiata con i resti del cenone: questo perché, in assenza degli abitanti, in casa sarebbe arrivata la Sacra Famiglia e avrebbe così potuto riscaldarsi e ristorarsi.

A Cervia il ceppo (che veniva rigorosamente scelto il 25 novembre, Santa Caterina) prima d’esser bruciato era spruzzato di acqua benedetta per togliergli ogni parvenza di paganesimo e lo si lasciava ardere per tutta la Notte Santa.

La mattina dopo il capofamiglia raccoglieva la cenere e la spargeva attorno alle pianteper renderle più fertili, mentre nel Fabrianese la cenere era sparsa solo sulle viti per preservarle dai bruchi (detti “rughe”); obbligatorio però recitare, durante l’operazione:
Vite, vite, n’t’arrugà/ ché la cennora te reco / dello ciocco de Natà”.

 

Se in Val di Chiana (Arezzo), ogni famiglia si radunava davanti al ceppo bruciante tenendosi per mano e cantando in vernacolo lo scongiuro: “Sia felice il ceppo/ domani è il giorno del pane/ ogni grazia entri in questa casa/ le donne, le capre, le pecore figlieranno/ abbonderanno grano e farina e vino”, a Teramo si bendavano i bimbi e, conducendoli davanti al “tecchio” ardente, gli si faceva picchiar su con le molle esprimendo desideri.

A mezzanotte sul ceppo venivano gettati – uno alla volta – 12 chicchi di grano, simboleggianti i mesi dell’anno; se il chicco bruciava volando all’insù, il prezzo del frumento sarebbe salito; se andava all’ingiù, sarebbe rimasto invariato.

In Val d’Aosta carboni lasciati dal ciocco venivano messi in un sacchetto di lino e usati per guarire malattie della pelle di umani e animali col semplice sfregamento in loco.

E infine in Liguria la cenere del “çéppu” (possibilmente d’alloro, pianta magica nemica delle tempeste) era sparsa il 6 gennaio negli angoli della casa e sui davanzali per allontanare “béghe, ratélle, mugugni e tròn”, ossia grane, litigi, proteste e tuoni.

Oggi il Ceppo di Natale si vede ancora; ma causa rarità di focolari familiari, non viene più bruciato, ma mangiato.

© Mitì Vigliero

Credenze, Usanze e Meteo di Pasqua

Il principale interesse che gli italiani hanno nei confronti della Pasqua, per molti fondamentale per la preparazione dei bagagli in vista delle vacanze, è: “Che tempo farà?”.

Per avere la risposta, basta saper rispondere a questa domanda: “Vi ricordate che tempo faceva il 25 dicembre, Natale?”

Difatti un proverbio diffuso in tutte le regioni d’Italia recita – in dialetti diversi e con qualche differenza di vocaboli – Natale in piazza (ossia all’aperto, causa sole caldo), Pasqua al camino (tappati in casa perché farà un freddo becco)”.
E viceversa.

Se non avete abbastanza memoria per ricordarvi il meteo di 5 mesi fa, cercate di rammentare quello della settimana scorsa: la Domenica delle Palme c’era il sole o no? Se sì, a Pasqua farà brutto. E viceversa pure qui.

E proseguiamo.

Fondamentale usanza d’origine ebraica sono le Pulizie di Pasqua, dai cristiani collegate al sacramento della Confessione (“confessarsi e comunicarsi almeno a Pasqua”); come questa pulisce l’anima –  dice un proverbio “all’anima si deve fare il brusca e striglia almeno una volta all’anno” – così anche la casa dove il possessore dell’anima vive deve essere sottoposta a brusca e striglia per cacciar via microbi e cose brutte.

Nelle campagne d’Abruzzo, il Sabato Santo, le massaie brandendo la scopa con due mani, danno violente ramazzate in ogni angolo della casa per scacciare il Diavolo; in quelle liguri spargono negli angoli un po’ di cenere rimasta dal Ceppo di Natale, infallibile scacciasàtana.

In Molise il dì di Pasqua ogni donna potrà sapere se il suo lui l’ama davvero; basta che ponga nel camino acceso o sulla stufa rovente una foglia d’ulivo recitando “Foglia benedetta che vieni una volta all’anno, dimmi se Tizio mi vuole bene“.
Se la foglia si agiterà accartocciandosi, l’amore sarà ricambiato.
Se resterà immobile, meglio cambiare moroso.

Molte credenze in ambito contadino, affermano che la ricchezza dei raccolti varia a seconda che la Pasqua sia alta o bassa.
Ma poiché i vari proverbi sull’argomento affermano in contemporanea l’esatto contrario (buon raccolto in alta, buon raccolto in bassa, cattivo in alta, cattivo in bassa), meglio affidarsi al lapalissiano ma rassicurante

Pasqua venga alta o venga bassa
la vien con la foglia e con la frasca.
Venga Pasqua quando si voglia
la vien con la frasca e con la foglia.

Se a Firenze i cittadini traggono auspici dal volo della Colombina che darà fuoco – nello spiazzo tra Battistero e Cattedrale – al carro detto Brindellone, a Ragusa nella chiesa dell’Annunziata attendono con ansia la caduta dell’enorme telo che sino al momento della Resurrezione copriva il Crocifisso: a seconda di come piomberà a terra, vi saranno fortune o sfortune per la città.

Infine, la mattina della Domenica, appena s’udiva il suono delle campane, in tutta Italia vigeva l’uso di bagnarsi gli occhi con l’acqua delle fonti, diventata magica e salutare sino alla fine dei rintocchi.

E porta buono lo stesso scampanìo dei bronzi che, dal Venerdì, avevan taciuto perché in viaggio verso Roma, come spiega una dolce, piccola poesia che forse qualcuno di voi avrà imparato da bambino:

 Dicon che quando vien la Settimana
Santa, parte per Roma ogni campana
perché alla Pasqua di Resurrezione
il Papa le darà benedizione.
Volando dalle terre più lontane
si trovan tutte in cielo le campane
e s’intendon fra lor, durante il viaggio,
perché parlan l’identico linguaggio
che tutti noi intendiamo. Per chi crede,
è semplice il linguaggio della fede.

© Mitì Vigliero

Forse non lo sappiamo, ma parliamo tutti Arabo

parole

La lingua italiana è piena di parole decisamente arabe; parole semplici, comunissime, che usiamo quotidianamente.

Queste entrarono a far parte della nostra lingua  già in epoca antichissima quando gli Arabi, più o meno dal 650 al 1100 dC, furono padroni del Mediterraneo.

Conquistarono un immenso territorio che si estendeva come un enorme abbraccio dai confini dell’India, attraverso l’Africa settentrionale, fino ai Pirenei.
In Italia tennero a lungo la Sicilia, crearono capisaldi sulle coste Italiane dalla Puglia alla Liguria, entrarono in Piemonte, sino alle Alpi.

E si sa che tutti i conquistatori lasciano sul terreno non solo sangue e distruzioni, ma anche costumi, usanze e linguaggi.

Però furono soprattutto i commerci che l’Italia tenne col loro mondo, praticamente da sempre, i veri responsabili dell’adozione, da parte nostra, di parole arabe.

Sin dall’epoca delle Repubbliche Marinare i nostri mercanti avevano uffici, oltre che in patria, anche in quelle terre; nei mercati e nelle “borse”, sino al secolo XIX non era l’inglese la lingua che gli imprenditori dovevano conoscere bene per gestire i loro affari, ma l’arabo.

Per questo i numeri che usiamo da sempre sono quelli cosiddetti arabi (in realtà sono sanscriti); e se dall’1 al 9 noi usiamo per pronunciarli parole d’origine latina lo zero è, in tutto il mondo, esclusivamente loro: sifr, dal quale deriva anche la parola cifra.

Allo stesso modo tara è la tarh (detrazione); tariffa è la ta’rifa (notizia pubblicata);  gabella la qabala (parola di origine ebraica) e il tentare la fortuna attraverso la cabala per riuscire a pagarle invece voleva dire affidarsi alla qabbalah, (tradizione dell’interpretazione delle sacre scritture).

Allora, come ora, le merci venivano acquistate tramite sensali (simsar, mediatore), trasportate da facchini (faqih) in grandi fardelli (fard, uno dei due carichi del cammello) dentro magazzini (makahzin) o  fondachi (funduq, deposito) e meticolosamente inventariate su taccuini (taquim, giusta disposizione).

I genovesi furono i primi a stiparli di cotone (qutun) e di pietre quali lapislazzuli (lazuward, azzurro).

Altri, in una gara (gara’) all’importazione, prediligevano albicocche (al-barquq), carciofi (kharshuf), arance (narangia), limoni(limum), asparagi (aspanakh),  zibibbo (zabib), zucchero (sukkar) e zafferano (za’faran).

Le carovane (carwan, compagnie mercantili), ne riempivano le stive a bizzeffe (bizzaf, gran quantità); poi ogni ammiraglio (amir, capo principe della flotta), dopo una sosta in darsena (dar-sina’a, casa del mestiere) per controllare che tutto fosse a posto, dava l’ordine ai marinai di staccare le gomene (ghumal) dalle bitte dei moli e iniziare la navigazione verso casa.

Di notte, con la nuca (nukha, midollo spinale) piegata all’indietro, il comandante coi suoi strumenti osservava lo zènit (il punto della volta celeste perpendicolare alla testa di chi osserva il cielo) e studiava il nadìr (il punto opposto allo zènit).

Sferzato dallo scirocco (shuluq) e dal libeccio (lebeg), pensava alle serate tranquille trascorse a casa sua sdraiato sul divano (diwan)  giocando a scacchi (schiah) con la moglie e sorseggiando sciroppo (sharub) di ribes (ribas) e sherry (xeres), mentre i figli allegri in giardino si scatenavano in partite a volano con le racchette (rahet, palmo della mano).

Il mercante invece, in pigiama (payjamé, vestito con le gambe) sdraiato sul materasso (matrah) non riusciva a dormire.

Sorseggiando caffè (kahvè), teneva stretta a sé la valigia (valiha) degli ori, paventando l’irruzione di un ladro reso magari talmente violento dall’alcol (al-kuhl)  da diventare un feroce assassino (hashishiìn, drogato di hashish).

© Mitì Vigliero