Cucinieri Futuristi nella Genova Anni Trenta

Filippo Tommaso Marinetti scelse proprio Genova per lanciare il suo Manifesto sulla cucina futurista  propagandante la P.I.P.A, propaganda internazionale contro la pastasciutta, “assurda religione gastronomica” che “ci inchioda alla scranna, repleti e istupiditi, apoplettici e sospiranti”.

Il 16 gennaio 1931, Marinetti organizzò una conferenza sull’argomento alla Galleria Vitelli, nel palazzo della Borsa; le forze dell’ordine faticarono a tener buona la folla accorsa a difendere l’antica tradizione farinacea: infatti i paladini delle troffie e delle lasagne minacciarono di pestare quelli che definivano la pasta “fonte di ogni pigrizia”.

Ma il nutrito gruppo dei Futuristi liguri – capitanato dal Filippo Tommaso e formato da Picollo, Lo Duca, Lombardo, Pierro, Verzatti, Tullio d’Albissola, Farfa, Gaudenzi, Mori, Fillia ecc – non mollò e per convincere i dubbiosi organizzò due cene memorabili, che si stamparono indelebilmente nella memoria e nello stomaco dei cronisti d’allora.

Il 7 luglio 1931, al Lido d’Albaro, allestirono la prima Agape Futurista.

Come aperitivo venne servito Lo Svegliastomaco Grandi Acque, intruglio in cui galleggiavano immense pastiglie sfrigolanti simili ad aspirine effervescenti; altrimenti si poteva optare per la Giostra d’alcool, cocktail composto da barbera, cedrata e bitter guarnito da cubetti di fontina e cioccolata fondente.

Seguivano:
– l’Areovivanda con sensazioni tattili, quest’ultime fornite da un cartoncino di carta vetrata da grattare con le unghie mentre si masticava un pesce lesso ricoperto di gelato al limone
– il Fruttincarne di cui i presenti si rifiutarono di descrivere gli ingredienti
– il Porcoeccitato, fette di salame innaffiate di acqua di colonia e immerse nel caffè bollente

Come dolce, le Mammelle italiche al sole, misteriosa ma immagino decorativa vivanda partorita dall’aeropittrice Marisa Mori. E infine come “pussacaffè” ci fu l’Uomoedonnaamezzanotte; sintesi pittorica con compenetrazione di volumi, che si vocifera avesse effetti afrodisiaci.

Il 22 novembre dello stesso anno i Futuristi liguri ripeterono l’exploit a Chiavari, in un simposio chiamato Aeropranzo; a trecento commensali vennero serviti il Timballo d’avviamento, testina di vitello immersa in un purè d’ananas, noci e datteri ripieni d’acciughe; il Decollapalato, capolavoro di lirica brodistica, consommé a base di carne, spumante e liquori su cui galleggiavano petali di rosa .
Come secondi apparvero il Bue in carlinga, polpette poste su piccoli aeroplani di mollica di pane e le Servovolatine di prateria, insalata di fette di barbabietola e arancia condita con olio e aceto.

Al posto del sorbetto vennero ammannite le Elettricità atmosferiche candite, una sorta di piccole saponette gelate dolci-amare colorate di blu elettrico e verde smeraldo e, infine, la Torta Ammaraggio, l’unica che venne spazzolata dai presenti affamati, perché composta semplicemente da marroni glassati, gelato alla vaniglia e pastafrolla.

Forse fu proprio per questo che i succitati Futuristi Liguri, che facevano parte dello storico gruppo “Sintesi”, dopo tali esperimenti consegnarono a Marinetti la seguente supplica:

Con l’ardito Manifesto sulla cucina futurista italiana avete assalito le sfinite irregolari cucine regionali che, tronfie di gloriuzza provinciale, sapevano troppo di rancido, stantio, ammuffito. Bene, approviamo! Battaglia alle vecchie vivande, guerra alle scipite pietanze forestiere, morte alla pastasciutta, viva il carneplastico!
Ma per evitare equivoci, noi futuristi liguri – mentre schieriamo le nostre forze accanto alle vostre contro maccheroni, vermicelli, spaghetti e tortellini- abbiamo l’ardire d’indirizzarvi la seguente supplica perché venga dichiarata leale neutralità verso i ravioli, per i quali nutriamo profonde simpatie e abbiamo doveri di riconoscenza e di amicizia.
Chi si rivolge al vostro magnanimo e generoso cuore è sicuro di ottenere grazia. Potremmo allegarvi migliaia di attestati comprovanti la squisitezza, la digeribilità e l’ottimismo che infondono i ravioli, propulsori dinamici che provocano maggiore elasticità di muscoli e di cervello in ogni buon ligure. (…). Certi che la nostra supplica verrà ben accetta dall’ Eccellenza Vostra, vi riprotestiamo la nostra grande devozione al grido di “Viva il Futurismo!”.

© Mitì Vigliero

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 (Filippo Tommaso Marinetti)

Carnale Lettera d’Amore in Busta Color Crema: il Raviolo nell’Arte, dal Baciccio ai Futuristi

Quando si parla di Gavi Ligure, si pensa subito al vino; però la cittadina merita di passare alla storia anche per un altro importante e delizioso prodotto gastronomico italiano.

Nel XII sec. Gavi era terra di frontiera, passaggio obbligato dei trasporti fra Liguria e il resto dell’Italia settentrionale; i mercanti sostavano abitualmente a mangiare e dormire nelle numerose locande del paese la cui più famosa era l’“Hustàia du Raviò”, proprietà della famiglia Raviolo che fu la prima a brevettare ufficialmente quella pasta ripiena chiamata appunto “ravioli”.

Nel 1202 Gavi passò sotto il dominio della Repubblica Genovese e i ravioli divennero uno dei piatti più amati dalla Superba che in seguito li esportò, oltre che in tutta Italia, anche in Provenza, Corsica e America del Sud.

E quando nel 1528 una parte della famiglia Raviolo si traferì a Genova, venne ascritta alla nobiltà e scelse come stemma una forma per ravioli sormontata da tre stelle.Forse però non tutti sanno che i ravioli, nella loro storia, sono stati spesso strettamente legati all’Arte.

 

Ad esempio, il pittore Giambattista Gaulli detto Il Baciccio, impegnato a Roma dal 1669 al 1683 a decorare la Chiesa del Gesù, tirava fuori l’”estro inventivo” soltanto se il committente, il padre generale dei gesuiti Paolo Oliva, gli faceva trovare ogni santa mattina ad attenderlo sulle impalcature poste all’interno del tempio, un’enorme e bollente porzione di ravioli , l’unica cosa – secondo l’artista – “capace di dissolvere l’acre atmosfera dell’acqua ragia e dei colori”.

Invece Niccolò Paganini, nel 1838 scriveva nostalgico all’amico Luigi Germi:
Ogni giorno di magro e anche di grasso, sopporto una salivazione (l’aquolina in bocca, ndr) rammentando gli squisiti ravioli che tante volte ho gustati alla tua mensa”.
E nel 1840, pochi giorni prima di morire, da Nizza Marittima trovava la forza di scrivere entusiasta ad un amico la “sua” ricetta  dei ravioli, citata ormai come classica dai sacri testi della storia gastronomica.

Infine i ravioli furono protagonisti anche del Futurismo.

Nel 1931 Marinetti sconvolse l’Italia e gli stomaci italiani col “Manifesto della cucina futurista“,  dove per prima cosa (causa l’allora carenza di grano in Italia, che veniva importato carissimo dall’estero) riteneva necessaria “l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica” la quale, digerendosi in gran parte in bocca e non facendo lavorare pancreas e fegato, sviluppava nelle italiche menti “scetticismo, sentimentalismo, fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo“.

Ciò scatenò la rivolta nel genovese gruppo futurista “Sintesi”, tanto che Farfa, Gaudenzi, Picollo, Lombardo, Pierro, Verzatti, Lo Duca, Tullio D’Albissola e altri, il 15 gennaio del ’31 scrissero un’accorata supplica al Marinetti nella quale, pur accettando di dichiar guerra a “maccheroni, vermicelli, spaghetti e tortellini” chiedevano “fermamente” una dichiarazione di “leale neutralità verso i ravioli, ottimistici propulsori dinamici per i quali nutriamo profonde simpatie e doveri di riconoscenza e di amicizia”.

Marinetti si convinse ed il raviolo, che Farfa (Vittorio Tommasini) definì “carnale lettera d’amore in busta color crema”, si salvò così dal Progressimo rimanendo uno dei capisaldi dell’italica cucina.

© Mitì Vigliero

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