I frati Cappuccini arrivarono a Palermo nel 1533 e si stanziarono in una piccola chiesa fuori le mura, Santa Maria della Pace.
Quando ingrandirono chiesa e convento, nel 1599, ampliarono anche la cripta e traslando le 45 salme dei confratelli morti in quegli anni, si accorsero che erano rimaste incorrotte.
Ciò dipendeva sia dal particolare ambiente dei sotterranei, chiamati da allora genericamente “catacombe”, sia dal loro metodo di inumazione; i corpi venivano prima posti in una stanza detta “scolatoio”, su graticci di tubi di terracotta posti in doccioni di creta; serrata la porta, vi rimanevano quasi un anno.
Una volta prosciugati e seccati, si mummificavano, mantenendo capelli, pelle e cartilagini.
La voce si sparse, e furono moltissimi i siciliani nobili o altoborghesi che chiesero d’essere lì sepolti, convinti di sconfiggere in qualche modo la morte rimanendo – novelli semidei o faraoni – in qualche modo sempre uguali a come erano in vita, mostrando ai posteri lo sfarzo degli abiti, la bellezza dei volti: monumenti perenni della loro superiorità sociale.
I frati perfezionarono il metodo di conservazione: dopo l’“essiccamento”, lavavano accuratamente i cadaveri con acqua e aceto o arsenico e calce in caso di epidemie, li rivestivano con gli abiti eleganti consegnati dalle famiglie e li attaccavano nella cripta tramite un gancio posto sul coppino o inchiodandoli ad assi di legno.
Sono circa 8000 i corpi imbalsamati e appesi ai muri di quelle stanze buie, lunghe e gelide; ottomila macabre parodie di quelli che un tempo erano stati principi, dame, baroni, distinti professionisti, alti prelati, colonnelli borbonici in divisa di gala.
Giovani, vecchi, bambini, uomini e donne che, nonostante le loro speranze e illusioni di terrena, eterna esistenza, la morte – sempre livellatrice – e il tempo – che non ha rispetto di nessuno – han reso tutti uguali.
Fantocci orribili avvolti in stracci bigi; maschere grottesche che non ispirano pietà, ma scherno, come esposti in una perenne gogna.
Un’enorme rappresentazione, una Caricatura della Morte.
C’è il generale garibaldino Giovanni Corrao, organizzatore e capo dei “picciotti d’Aspromonte”, assassinato nell’agosto del 1863 da un colpo di lupara; è in un feretro, lui, coperto da un lenzuolo, la barba folta e nera, il petto ancora villoso, una faccia furibonda.
Più in là la “cappella delle vergini”, con mummie femminili biancovestite come spose e appese al muro come scope; sopra di loro la scritta: “Seguono l’agnello ovunque vada: sono vergini”.
E il “reparto bambini”, con la visitatissima Rosalia e altre mummiette vestite come statue barocche di Gesù Bambino; e le donne, impilate in quelle che sembrano cuccette ferroviarie.
E poi Antonio Prestigiacomo, dongiovanni del suo tempo (‘700), il quale scrisse nelle ultime volontà che gli mettessero occhi di vetro per poter continuare a guardare le donne anche da morto.
E migliaia d’altri corpi allineati, ciondololanti, sdraiati in casse o ritti in teche di vetro…
Nel cimitero esterno del convento, terzo viale a sinistra, dal 1957 è sepolto Giuseppe Tomasi di Lampedusa; vedendo la sua normale tomba, dopo le mummie, è inevitabile pensare al finale del Gattopardo: il lancio dalla finestra dell’imbalsamato cane Bendicò, simbolo della defintiva caduta d’un mondo che fu.