In ricordo di Sem il gatto. E di tutti gli amici a quattro zampe che abbiamo amato

Dedicato a tutti quelli che sanno piangere per i loro amici a quattro zampe.

paradisoanimali
C’è una frase che non ho mai potuto sopportare; un modo di dire che di solito si usa quando si incontra una persona particolarmente, insolitamente triste: “Che hai, ti è morto il gatto?”.

Vorrebbe essere una battuta scherzosa, ma è solo stupida.Oggi sono particolarmente, insolitamente triste; e se qualcuno osa dirmi quella frase idiota, io gli rispondo: “Sì, e tu sparisci prima che ti dia un cazzotto”.

È morto il mio gatto; me lo aspettavo, aveva 19 anni e 11 mesi. Lo sapete quanti sono per un gatto? Un miracolo sono. Solo i siamesi e rari soriani a volte raggiungono età del genere; gli altri no, per mille motivi.

Ma Sem era robusto, forte, sano: era nato nei fondi della piscina di Ruta di Camogli.

Sem-il-rosso

Era rosso, tigrato, il classico gatto ligure, massiccio, dalla faccia rotonda e gli occhi gialli. Quando lo portai a casa stava nel taschino di una camicia; un anno dopo pesava dieci chili e il collo di quella camicia, abbottonato al suo, gli stava stretto.

Un gatto bello, simpatico, un amico; ho scritto dodici libri e centinaia di articoli con lui a fianco, spesso seduto a lato dell’Olivetti 22 prima e del computer poi.

Se l’argomento lo annoiava, si sdraiava dandomi la schiena; se gli piaceva, contribuiva schiacciando tutti i tasti preso dall’entusiasmo. Era l’unica presenza viva in casa durante il giorno: con lui parlavo, mi rispondeva, capiva.

Se ero triste allungava una zampa e me la passava sulle guance come a dire “Ci sono io qui, stai tranquilla”. Se ridevo, rideva anche lui a modo suo, ovvio, mettendosi a correre come una matto su e giù per il corridoio, in speciali danze di gioia.

Giocava per ore a pallone come portiere facendo parate incredibili; impazziva di gioia quando al momento della pappa urlavo “pèsciu!”, rigorosamente in genovese: il termine “pesce” lo lasciava indifferente; non ricordo che abbia mai compiuto un disastro in casa.

Delle sue nove vite, ne ha usate tre; la prima per un blocco renale causato dai croccantini, la seconda per un ictus e la terza per l’unica malattia che non si può curare: la vecchiaia. Era diventato il classico anzianissimo: sordo, rimbambito, incontinente, rompiscatole, ma sempre affettuoso.
Però ad un certo punto non ce l’ha fatta più.

Quando sono nata, in casa c’era un cane; sono cresciuta con altri cani e poi gatti. Volata via dal nido a 22 anni, qualche mese dopo ho trovato Sem, “bestio” tutto mio. Posso dire che siamo diventati grandi insieme.
E mi manca ancora da impazzire.

Lo so, molti di voi storceranno il naso dicendo “Sono solo animali”.
Lo so anch’io cosa sono: ma contesto quel “solo”.

Chi ama veramente cani e gatti sa che si tratta di esseri viventi assai simili all’uomo; anzi, in molti casi molto più simpatici e onesti di lui, capaci di ricambiare davvero e senza condizioni affetto e fedeltà.

Quando entrano a far parte di una famiglia “giusta” (non di quelle che – passato il primo slancio di tenerezza dato dal cucciolino vezzoso – lo abbandonano sulle autostrade) di quella famiglia diventano effettiva parte integrante.

Da me almeno è sempre stato così: ricordo quando mia madre, iscrivendo me e mio fratello rispettivamente alle elementari e all’asilo, consegnò i nostri certificati di vaccinazione alla Preside la quale, dopo aver dato loro un’occhiata, le disse: “Mi dica, signora: i bambini sono stati vaccinati contro la rabbia, la leptospirosi, il cimurro, gli ascaridi… Devo tenerli in classe con la museruola, o hanno frequentato un regolare corso d’addestramento?”

Perché allora anche Amì, il nostro pointer, era considerato uno di famiglia: praticamente un figlio.

© Mitì Vigliero