Ulug’Alì

Battaglia di Lepanto

Non si sa bene se fosse il 1519 o il 1525 quando, nel borgo di Le Castella a Isola Capo Rizzuto, a Birno Galeni e Pippa di Cicco, pescatori, nacque un bimbo: Giovan Dionigi.

Assai bruttino, gracile e affetto da orrenda tigna in testa, era però intelligente e i suoi decisero di farlo studiare per intraprendere la carriera ecclesiastica.

Ma il 29 aprile 1536 il corsaro turco Khair ed Din Barbarossa piombò su Le Castella con 45 galere e, dopo sette giorni d’assedio, l’invase distruggendola e portandosi via una valanga di prigionieri da vendere come schiavi al mercato di Costantinopoli.

Tra questi Giovan Dionigi che, proprio per il suo misero aspetto, venne comprato per due soldi dal corsaro Chiafer Rais, calabrese rinnegato agli ordini del Dragut, il quale dapprima lo schiaffò ai remi e poi, colpito dalla furbizia del ragazzo, lo promosse nostromo.

Cervantes, che lo venne a sapere quand’era pure lui prigioniero dei turchi, racconta che Giovan Dionigi – insultato da un prigioniero napoletano che gli diede del “tignoso venduto”- per potersi vendicare abiurò la fede cristiana, divenne musulmano e così fu libero d’ammazzare l’insultatore e soprattutto d’indossare il turbante che gli avrebbe finalmente nascosto la tigna.

Chiafer  premiò la sua abiura dandogli in moglie la figlia Bracaduna, il comando di due navi e un nuovo nome, Ulug’Alì el Fertas(Alì l’Apostata Tignoso), che le popolazioni cristiane del Mediterraneo storpiarono in Uluccalì, Luccialì, Locchialì e Occhialì.

La sua abilità tattica mista a ferocia fu grande; combattè a Tripoli, a Djerba e alle Peschiere; assediò Nicosia e Famagosta, prese Custoza, assaltò Ragusa, depredò Liguria e Sardegna ogni volta facendo numerosi prigionieri che, se nobili, lo arricchivano grazie agli altissimi riscatti che chiedeva in cambio.

Il 7 ottobre 1571 fu l’unico comandante turco sopravvissuto alla battaglia di Lepanto; fuggendo, riuscì ad impadronirsi dello stendardo dei Cavalieri di Malta e sventolandolo entrò nel porto di Costantinopoli sparando i cannoni a salve, come festeggiando una vittoria.

Il Gran Visir Selim II lo salutò come salvatore della patria ottomana, gli cambiò nuovamente il nome in Kilic Alì (Alì la Spada) e lo promosse Ammiraglio della flotta turca.

Potente, collerico e crudele, fu bey (governatore) di Tripoli ed Algeri; fondò la città di Navarino, costruì a Istambul la moschea-scuola coranica chiamandola Kilic Alì Pascià Camii.

Si circondò di uomini fidati, calabresi, sardi, napoletani tutti rinnegati come lui; sulla collina di Top-Hana, presso Costantinopoli, fondò il suo regno personale: un villaggio che battezzò Calabria Nuova.

Pochi anni prima della morte (1587), si narra che tornasse a Le Castella per riabbracciare la madre Pippa, coprirla di doni e mostrarle quanto fosse riuscito a fare quel suo figlio bruttino e tignoso; ma Pippa rifiutò l’incontro dicendo: “Non lo conosco. Mio figlio era un cristiano, ed è morto”.

Se andrete nel meraviglioso complesso fortificato di Le Castella, vedrete un busto d’un uomo col turbante in testa e lo sguardo indecifrabile: Ulug’Alì el Fertas, eroe per i turchi, ma figlio rinnegato.

© Mitì Vigliero