Il Giardino Incantato di Sua Eccellenza Filuppu de li Testi

Era il 1913; tante navi partivano dai porti italiani dirette verso le Americhe, cariche di giovani pieni di speranze in una vita nuova, fatta di fortuna e benessere.

Tra questi c’era il venticinquenne manovale Filippo Bentivegna, nato a Sciacca nel 1888 e diretto nel Middle West a costruire ferrovie.

Ma lì non trovò fortuna e benessere bensì un amore contrastato che gli costò una badilata sul cranio da parte di un rivale; il colpo fu così violento che dovette abbandonare il lavoro e tornare a casa, diverso nel carattere e nella mente.

Coi soldi guadagnati comprò subito fuori Sciacca, in località Sant’Antonio e ai piedi del Monte Kronio, una casetta al centro di un podere pieno di ulivi, fichi d’india e rocce.

Mastru Filippu, come lo chiamavano, era completamente analfabeta; non sapeva nulla di storia, di arte, di scultura; ma appena preso possesso del suo terreno, iniziò a scolpire ogni pietra che vi trovava.

E scolpiva teste, solo teste: teste femminili e maschili, teste serie, teste tristi, teste sorridenti, teste enigmatiche.

Teste di antichi guerrieri, di pellerossa, di re con la corona, di papi con la tiara; teste di ruffiani, di nobili, di soldati, di briganti, di contadini. Teste di Hitler, Mussolini, Garibaldi, Fate, Regine.

Teste che ricordavano idoli precolombiani, teste simili a mascheroni africani, teste identiche a quelle dei pupi siciliani…

Centinaia, migliaia di teste tutte diverse, ma accomunate dall’identico sguardo attonito, perso nel nulla.

I pezzi più grandi di roccia divennero simili a gradinate di teatro; ogni spunzone una testa diversa.
Ogni roccia di media grandezza si tramutò in un brulichìo di cranii spesso uniti uno all’altro come dei Giano bifronte. Persino i sassi vennero scolpiti e abbandonati sull’erba nel punto dove li aveva trovati.

Tramutare pietre in teste era diventata per Bentivegna una sorta di vocazione, di imperativo categorico; misantropo, viveva da solo in compagnia di tanti cani, aveva pochi rapporti coi suoi concittadini: diceva di non aver tempo da perdere, che tutto il suo tempo era dedicato allo scolpire.

Voleva essere chiamato “Sua Eccellenza” perché si era convinto di abitare in un Regno tutto suo, con tanto di Castello e di Giardino incantato intorno.

A chi gli chiedeva spiegazioni del perché scolpisse solo cranii umani, rispondeva “la testa nasce testa“, ossia qualunque cosa abbia una seppur vaga forma di testa “è” una testa: ha vita, pensiero dentro di sè.
E facendo “venir fuori” dai sassi le teste, Mastru Filippu “fecondava” la sua terra dandole vita; non per nulla parecchie di quelle teste hanno sulla sommità una sorta di fallo.

Ad un certo punto gli vennero a mancare le rocce; iniziò allora a scolpire gli alberi d’ulivo, ma la materia non gli dava la stessa soddisfazione.

Così incominciò a scavare per tutti i due ettari del suo terreno, alla ricerca di pietre.

Scavò tunnel, cunicoli, grotte, scolpendo direttamente le teste sulle rocce che spuntavano dal tufo; nel frattempo ricoprì ogni parete interna della sua casa con dipinti naif che riproducevano i grattacieli americani.

Nel 1967, Filippu delli testi morì.
Il suo Castello col Giardino Incantato appartiene ora al Comune di Sciacca, che ne ha fatto un Museo a cielo aperto.

© Mitì Vigliero

Qui il trailer di un bel documentario che racconta la vita di Filippo Bentivegna

Qui la canzone che i Virginiana Miller han dedicato a Bentivegna

Amo i sassi verdi che trovo sulle spiagge

Mi piacciono i sassi della spiaggia; mi piace toccarli, stringerli fra le mani, sentirne la superficie sotto i polpastrelli.

Mi piace osservarne i colori, le striature; cerco di immaginare come e cosa fossero prima dell’azione del tempo e dell’acqua che li ha resi piccoli, tondi, lisci.

Montagne, rocce, scogli di chissà quale paesaggio. E poi muri, lastricati, soffitti e pareti di chissà quali abitazioni.

Ogni sasso racchiude una memoria speciale: potrebbe narrare storie infinite.

Mi piacciono soprattutto quei sassi verdi di cui le spiagge di Liguria sono piene.

Hanno lo stesso colore degli vecchi pavimenti delle case di qui, agglomerati di graniglie che formano disegni simili a tappeti orientali , ma anche quando non hanno decori ricordano il fondo del mare visto attraverso acque limpide.

E mi chiedo chi ci abbia camminato, sui quei pavimenti; a quali stanze appartenessero, di quali vite siano stati spettatori e perché siano un giorno finiti in mare.

Non so perché, ma da sempre quei sassi per me sono simbolo di case e famiglie; di genitori e figli, di risate e pianti, di progetti e di speranze e di ore, giorni, mesi, anni trascorsi in un rincorrersi di generazioni e accadimenti.

Per questo amo i sassi verdi che trovo sulle spiagge.

Sono piccoli sogni concreti, ricordi solidificati, istanti pietrificati di un passato che non tornerà più, ma che è dolce rammentare.

Se può servire un tuffo in mare
per salvarti la vita da quelle che sono
le intemperie della banale esistenza
forse basta lasciarsi consolare (o illudere)
dai minimi pensieri che il giorno offre,
come perdersi nel colore cielo di due occhi
o annegare una mano in ricci biondi
proprietà del figlio dei vicini d’ombrellone.
Le voci della spiaggia sono senza tempo;
sotto le palpebre chiuse rivivi la tua infanzia,
quando chiamavi gridando la madre
per mostrarle orgogliosa un sasso verde:
guarda mamma, com’è verde.
Tra gli odori degli olii e delle creme,
col salato del mare sulle labbra
nulla ha più significato; tentare
il ritorno nel grembo è solo un sogno,
come riprovare le emozioni vissute.
Rimane un po’ di noia e rabbia.
Di sassi verdi ce ne sono mille,
ma nessuno è uguale a  quello.

(San Fruttuosoda Teatrino)