Molti nomi di luoghi italiani traggono la loro origine dalle caratteristiche di vita che gli antichi abitanti – soprattutto contadini – vi menavano; di certo a quei tempi non erano molte le pretese: bastava che ci fosse da mangiare grazie alla fertilità del terreno, e tutto andava ben.
Per questo Rivoli e il suo territorio, nel Medioevo, avevano come denominazione prediale “Bonodisnario”, “buon desinare”, che indicava quindi un luogo fruttifero, una terra che dava buoni prodotti così come, in Alta Val di Susa, troviamo una frazione di Fenestrelle che si chiama Chambons, “campi buoni”, alias produttivi.
Ovviamente simbolo del cibo e del relativo benessere era soprattutto il pane, elemento prezioso e sacro dal significato sempre positivo di felicità, benessere e salute.
Il toponimo Pamparato (anticamente Panparato) – ad esempio – è assai diffuso soprattutto in Piemonte dove troviamo Pamparato di Moncalieri, Pamparato di Dogliani, Pamparato di Ormea, Pamparato Madonna del Pilone (To).
Ma il più celebre è senza dubbio il delizioso Pamparato di Mondovì, dove una leggenda locale spiega così l’origine del nome.
Durante un lungo, estenuante assedio saraceno del 920, nel paese era rimasta un’unica pagnotta; allora gli abitanti la presero, la intinsero nel vino, la misero in bocca a un cane che spedirono fuori dalle mura.
I saraceni, vedendo il cane papparsi la pagnotta, convinti che di cibo gli assediati ne avessero a josa, dimostrando un’ottima cultura umanistica che li faceva ovviamente dialogare in perfetto latino durante gli assedi, esclamarono: “Habent panem paratum!”, hanno il pane condito! E delusi se ne andarono.
Per questo sullo stemma di Pamparato è raffigurato un cane che tiene in bocca la pagnotta e, vicina, una bianca colomba con ramoscello d’ulivo in becco, simbolo della pace e libertà conquistate.
In realtà il nome Pamparato pare che più semplicemente derivi da “paratus”, participio del verbo latino “parare”; ossia pane “pronto, apparecchiato” preparato cioè senza fatica, perché sempre legato – in modo traslato – al concetto di “terreno fertile, produttivo”.
Ma se invece la sfortuna incombeva sui luoghi ove si abitava, ecco che i toponimi (che erano originariamente quasi tutti nomi di cascine divenuti ora frazioni) lo dichiaravano spietatamente.
Così si spiegano nomi come Mancapane (che troviamo sia in Valtellina che a Collecchio e Genivolta, vicino a Cremona), Piangipane (Ravenna), Pamperduto (Torino, Novara) o Pampuro (Mantova), che non significa “pane puro, raffinato” ma “pane solo, senza companatico”.
Il disagio e la miseria hanno anche ispirato i nomi di Mancalacqua a Verona; Mancasale a Reggio Emilia; i vari Guzzafame (a Como, Cremona, Brescia e Milano) e Mancatutto (Milano Borgo San Gottardo), situazioni tristissime causate dal “terreno maligno” denunciato dal toponimo Malegno (Cividate Brescia) e dalla conseguente Malpàga (Milano, Brescia, Bergamo, Pavia), sino a ridursi come Poggio Povero (Lucignano) o, peggio, Poggio Mendico (Bibbiena e Arezzo).
O voi Vacanzieri sparsi per le varie regioni dello Stivale: sapete che pare che l’Italia pulluli di tesori nascosti?
In Piemonte, ad esempio, e precisamente aBelveglio(Asti), sotto il castello Belvedere che anticamente aveva l’allegro nome di Malamorte, esiste un dedalo di gallerie, anfratti, grotte dove si cela un ricchissimo tesoro composto da monete e gemme preziose.
Nelle vicinanze di Villar Perosainvece c’è il “Roccio d’la Fantina”, un masso su cui qualcuno ha tracciato con la calce dei misteriosi segni, quasi una mappa: dicono che chi riuscirà a decifrarli troverà tutti i tesori nascosti nella vallata.
Per scoprire quelli anfrattati nei territori marchigiani bisogna munirsi di una “palla simpatica”, una sfera di legno alla quale è legata, con un rametto di faggio, una calamita; ad ogni modo molti oggetti preziosi sembra siano sepolti sotto le rovine del castello posto sul Colle di Santa Colomba vicino a Pergola, mentre nelle viscere del monte San Cristoforo è nascosto un telaio tutto d’oro.
Nella lombarda Trezzo sull’Adda, sotto i ruderi del castello, dicono che vi siano ancora pezzi dimenticati del tesoro del Barbarossa, arraffato dai milanesi dell’epoca.
Altre ricchezze stanno nei fondi dei castelli di Urgnano e diPandino; visto che l’unione fa la forza molti anni fa, a Treviglio, un gruppo di speranzosi amici fondò l’”Associazione Anonima Tesori” con tanto di sedi (via Adua 1 e via Terraccio 1), regolamento e carta intestata: purtroppo il sodalizio si sciolse dopo varie infruttuose esplorazioni dei succitati sotterranei.
A Gaeta, vicino al promontorio detto La Nave, c’è un buco nella roccia chiamato Pozzo del Diavolo dal quale esce uno stranissimo rumore prodotto dalle onde che si rifrangono sul fondo: dicono che lì si trovino anfore zeppe di preziosi d’altissimo valore.
A Cosenza, nel fiume Busento, insieme a Re Alarico sono sepolte le sue ricchezze e a Longobuco, poco dopo il ponte sul Trionfo, ci si imbatte in una grossa roccia chiamata “la Gnazzita”; basta sollevarla per trovare sotto di essa una chioccia d’oro attorniata da tanti pulcini d’oro anch’essi.
Per la cronaca, la chioccia d’oro coi pulcini o le uova era una tipica opera d’arte d’epoca etrusca prima, bizantina poi: una specie di divinità casalinga che simboleggiava la famiglia e la relativa protezione matriarcale. Quasi tutte le dame nobili ne avevano una, più o meno grande a seconda della ricchezza familiare; e di tesori leggendari che citano chiocce d’oro ce ne sono molti sparsi in tutta Italia. Basta cercarli.
Ma proseguiamo. E’ interessante sapere che nel 492 d.C. gli abitanti diAquileia, assediati dalle truppe di Attila, decisero di abbandonare la città; ma prima scavarono un profondo pozzo, vi nascosero tutte le loro ricchezze e lo riempirono di terra.
Però nessuno fu poi in grado di ritrovarlo e, sino ai primi del 1900, nei contratti di vendita dei terreni vi era inclusa una clausola tramite la quale il venditore si riservava, in caso fosse stato localizzato, l’esclusiva proprietà del pozzo e del suo contenuto: ma ancora oggi è sempre lì, che aspetta paziente di essere scoperto.
Secondo la tradizione più o meno popolare anche le innumerevoli scorribande saracene in Italia furono causa, oltre che di lutto e distruzione, di smarrimenti di centinaia di preziosissimi tesori nascosti sia dalle popolazioni in fuga, sia dagli stessi pirati che, nei momenti di difficoltà, preferivano anfrattare il bottino per poi tornarselo a riprendere in altri momenti.
Ad esempio nel lembo di terra bagnata dal Farfarus ovidiano, dominata dagli Orsini e da Narni e sede dell’antichissimaabbazia di Farfa, un gruppo di monaci benedettini in fuga durante l’assedio dei saraceni, nascose il tesoro dell’abbazia (pietre preziose, pissidi, calici ecc) presso un piccolo colle della Sabina.
Quale colle di preciso però non si sa.
Per lo stesso motivo in Val d’Aosta, fra le rovine del castello di Graines, dall’XI sec. raccontano che dorma in attesa d’essere scoperto l’immenso tesoro nascosto dai monaci di San Maurizio d’Agauno, l’attuale Saint-Mauricevicino a Martigny, nel Vallese elvetico; così come si dice che i ruderi antichi dell’abbazia Santa Maria dell’Alberese nella Maremma grossetana, custodiscano sacre ricchezze benedettine.
E se nel piemontese Ottiglio Monferrato, nella valle di Guaraldi in località Prera, c’è la Grotta dei Saraceni, ove i predoni nascondevano il razziato – e leggenda vuole che vi sia stato trovato un loculo pieno monete d’oro, inLiguriaper secoli si è cercato il tesoro del pirata Dragut.
Dicono che l’avesse nascosto nel 1557 nellaCala dell’Oro, meravigliosa insenatura posta fra Punta Chiappa e Camogli; secondo altri invece si trova a Paraggi, in una caverna nascosta sotto Villa Bonomi Bolchini.
Ad Arenzano nel 1560, gli abitanti vedendo i pirati all’orizzonte, decisero di calare in fondo a un pozzo tutte le loro ricchezze; poi lo coprirono di terra.
Tornata la calma dopo giorni, corsero a recuperare i preziosi; ma l’avevano nascosto così bene quel pozzo, che non riuscirono mai più a trovarlo, e anche lì sino alla fine del 1800 nei contratti di vendita terreni c’era la clausola che al venditore sarebbe andato il contenuto del pozzo in caso di ritrovamento.
Una cosa simile accadde lo stesso anno ad Oleastra (oggiVolastra), sopra Manarola.
Gli abitanti avevano da tempo preparato un nascondigliosulle fasce dietro al paese; una grande profonda buca divisa in scomparti, dove ciascuno poneva i suoi preziosi in caso di attacco. Quell’anno vi avevano seppellito anche le 3 nuove campane in bronzo della chiesa.
Ma accadde che i saraceni quella volta li aggredirono in modo più violento del solito, uccidendone buona parte, catturando l’altra come schiava e rendendo Oleastra un paese fantasma.
Passarono gli anni, pian piano il posto si ripopolò, ma i nuovi abitanti non sapevano nulla del tesoro nascosto.
Un giorno arrivò un vecchio svanito e malconcio; disse di essere l’unico sopravvissuto alla prigionia saracena e raccontò della buca, degli ori, delle campane. Però non ricordava affatto il luogo esatto del tesoro, e dopo poco morì.
Per anni si scavò dappertutto, inutilmente.
Dicono che, nelle notti di temporale, si sentano suonare le campane sottoterra: ma nessuno, di quei rintocchi, è ancora mai riuscito a capire la direzione.
Chi bazzica abitualmente il Golfo del Tigullio, avrà di certo sentito parlare dell’antica rivalità esistente fra gli abitanti di Santa Margherita e quelli di Rapallo; un’antipatia oggi quasi scomparsa, ma che ha precise origini storiche.
Nel XVI secolo il mar Mediterraneo era sconvolto dalle nefande imprese del ferocissimo pirata turcoTorghut, il cui nome venne presto storpiato in Dragut.
Il 26 aprile del 1549, il Doge di Genova aveva spedito alle autorità di Santa Margherita e al Podestà di Rapallo una grida in cui li esortava a raddoppiare le guardie sulla costa, servendosi di fuochi notturni e diurni e di “segni di netto e di brutto” (fumi bianchi e neri) che avrebbero dovuto avvisare gli abitanti dell’arrivo delle navi corsare, di modo che gli uomini avrebbero potuto armarsi, i beni essere anfrattati e “le donne con li vecchi e i putti” correre a nascondersi sulle alture.
Fatto sta che i Rapallesi – il perché non si sa, forse per un errore di informazione – disattesero la grida; la notte del 4 luglio il Dragut – al comando d’una flotta di 22 velocissime fruste (piccoli e agili velieri arabi)– piombò come un fulmine su di loro portando morte e distruzione: i Sammargheritesi, allarmati dal fracasso, riuscirono per un pelo ad armarsi ed evitare l’assalto.
Il Podestà di Rapallo, dopo la sciagura, andò dal Doge dicendogli che occorreva costruire un castello fortificato sulla costa del suo Borgo; i soldi però liavrebbero dovuti tirar fuori i limitrofi Sammargheritesi, visto che i Rapallesi avevano subito ingentissimi danni e loro no, e anche perché correva la voce che al fianco di Dragut operasse come schiavo-consigliere tal Maranola, un sammargheritese marrano e rinnegato che di certo aveva dato al Corsaro le giuste dritte per l’assalto.
Quando la notizia arrivò a Santa, vi fu un’esplosione di rabbia; gli annali narrano che l’”agente maggiore” Giacomo Costa, uno “dei più altieri in esso loco”, lasciò andare un pugno sul tavolo urlando “Sangue di Dio!” – cosa che, secondo la legge vigente allora, avrebbe potuto costargli la galera o la perforazione della lingua.
A quel grido, la popolazione si riversò nella piazza della Chiesa manifestando la propria indignazione.
Basta “contribuzioni che a Santa Margherita non profittavano un bel niente”!
Basta “star soggetti al borgo di Rapallo”!
E poi “che ne potevano loro se quei là, di fronte a Dragutte, eran scappati come femmine in camicia? Che perciò venissero a mungere come sempre le tasche dei sammargheritesi, questo, perdinci, no!”.
E poiché i tre nerborutissi figli del Costa minacciavano addirittura di marciare su Rapallo e “fare il resto” – ossia di finire il lavoro di Dragut – e i Rapallesi da parte loro volevano pestare quelli di Santa per colpa del loro concittadino traditore, le Somme Autorità gnovesi decisero salomonicamente che ciascuna delle due cittadine avrebbe dovuto costruirsi un castello difensivo, piantandola una buona volta di “rattellàre” (litigare).
Così, su disegni di Antonio de Carabo, maestro comacino, vennero edificati i duecastelli di pietra grigia che ancora oggi vediamo: il primoa Rapallo, al limite della passeggiata, il secondo a Santa Margherita, proprio nel centro del suo piccolo golfo.
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