In Cambusa c’era la Panatica: cosa mangiavano gli antichi marinai

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Cristoforo Colombo importò in Europa dalle Americhe pomodori, patate, peperoni, tabacco,  cacao, mais eccetera, tutti nuovi alimenti che variarono senza dubbio le nostre abitudini alimentari; ma non tutti sanno che ricambiò il favore ai nativi dell’America centrale facendo conoscere loro per la prima voltal’aglio, l’unica verdura che aveva a disposizione in cambusa.

Già i Vikinghi e i Fenici lo conservavano gelosamente nelle loro casse da marinai, piccoli bauli che accompagnano da sempre i naviganti nei lunghi viaggi.
Perché l’aglio, grazie alle sue virtù antisettiche, è sempre stato considerato preziosissimo dalla gente di mare.

Nelle Annotazioni alle Regole della sanità et natura de’ cibi di Ugo Benzo, il torinese “medico delle Serenissime Altezze di Savoia” Ludovico Bertaldi, a tal proposito  scriveva:

“Se ne fa grande uso nelle flotte per levare la putrefazione che nasce da i pessimi odori delle sentine e perché dona vigore a quelli che menano i remi; e perciò si mangia communemente da tutti quelli che sono in mare, la mattina subito ch’è giorno”

Non c’è da stupirsi quindi che proprio in barca siano nati i piatti più famosi a basi d’aglio, come l’agliata, antenata del pesto, la caponata o quelle straordinarie zuppe che i veneziani chiamano “guazzetto”, i toscani “caciucco”, i genovesi “brodetto” e i napoletani “acqua pazza”.

Le vecchie cambuse delle navi non erano certo munite come quelle di oggi di frigoriferi; ergo le uniche provviste che potevano essere stipate erano quelle a più o meno lunga conservazione: queste razioni alimentari venivano chiamate la panàtica e sulle triremi romane essa consisteva in farina di grano impastata con olio e vino, orzo cotto e tostato, farina di lino mescolata a  semi di papavero e miele, formaggio impastato con uova, vino, biscotto, cipolle e aglio.

Il gentiluomo comasco Pantero Pantera, capitano delle “galere” pontificie alla fine del XVI secolo (notizie su di lui le trovate qui, da pag 9), ne L’armata nauale ha lasciato una interessante descrizione dell’interno delle navi:

“La galea è lunga, stretta e bassa; ha una sola coperta e dentro è divisa in sei camere. C’è la camera della poppa per i capitani, i gentiluomini e per le altre persone di rispetto. Lo scandolaro è una camera contigua a quella di poppa: vi si conserva una parte dell’arme e delle altre robe della gente di poppa, e vi sta anche qualche botte di buon vino. Dopo lo scandolaro è la camera della compagna, che serve come dispensa, nella quale sta il vino e il companatico, cioè la carne salata, il formaggio, l’olio, l’aceto, i salumi. Dopo questa è la camera chiamata pagliolo, dove si tiene il biscotto, la farina. Il riso, l’acqua, il pane, le fave e l’aglio”.

Sulle galere, oltre alle “persone di rispetto”, c’erano gli schiavi; essi vivevano praticamente incatenati ai remi, e il loro rancio quotidiano consisteva in “due libbre di biscotto, mezza di formaggio o quattro sarde, una pinta di vino, un’oncia d’olio e una testa d’aglio”.

Quest’ultimo era fondamentale nella vita dei marinai, come ho detto all’inizio, soprattutto per questioni di salute; l’igiene a bordo era trascuratissima, l’acqua potabile andava immediatamente a male e le infezioni intestinali mietevano più vittime dei combattimenti, degli ammutinamenti e della stanchezza.

Col passaggio dai remi alla vela, vi fu un lento miglioramento delle condizioni  della vita di bordo; Bartolomeo Crescenzio, capitano del XVII secolo, prescriveva  ciò che i comandanti avrebbero dovuto dar da mangiare alle ciurme della Marina Pontificia:

“La panatica sia in pesce e maiale salati, formaggio, biscotti, aglio e cipolle. Il patrono di ogni nave coperta deve dare a tutti i marinai tre giorni alla settimana carne, e nelli altri giorni minestra e ogni sera di ogni giorno lo companaggio. Ancora tre volte per ogni mattina e per ogni sera vino. E’ tenuto a raddoppiare la ratione per ogni festa principale. Et ogni alba sia dato a ogni marinaro un aglio intero.”


(immagine©Liguriacards)

Ma sarà solo alla fine del Settecento che ai marinai verrà concesso di cibarsi regolarmente e quotidianamente di pesce fresco (alimento che di certo lì non mancava); e quasi in ogni porto potevano nutrirsi di cibarie e verdure fresche grazie a quelli che in Liguria venivano chiamati “catrai”, vere e proprie piccole osterie galleggianti montate su gozzi o chiatte, che avvicinandosi a vascelli e galeoni  vendevano piatti fumanti di minestrone, tutti rigorosamente al pesto al triplo aglio.

Però anche agli inizi del Novecento, sulle piccole imbarcazioni da pesca che non si allontanavano da casa per più di due o tre giorni, nella cambusa le provviste erano quasi sempre le stesse: gallette,  formaggio stagionato, lardo, olio, vino, fagioli, ceci, pomodori in conserva e aglio, tanto aglio.


(immagine©Gammaro)

Il cuoco ligure Ferrer , divenuto celebre negli anni ’70 conducendo una delle primissime trasmissioni gastronomiche in TV insieme a LuigiVeronelli, nel libro Pesto&Buridda raccontava che quando aveva undici anni –era la fine degli anni ’20, per molti tempi di miseria e carenza cronica di lavoro- era già imbarcato sulla Maria Vincenzina, barca da pesca a dieci remi: “sei cestoni di palamiti da calare in mare e recuperare ogni giorno, per un totale anche di circa un quintale e mezzo di pesce”.

La vita era faticosissima; tre, quattro giorni fuori in mare, con barche piccole – leudi o sciabecchi e un appetito cronico:

“Aspettando l’ora del rancio, fumavo mezza sigaretta fatta di gambo d’aglio: era un modo per tenere a bada la fame, resa acerba dalla stanchezza sui remi e dalla voracità dei polmoni stimolati dall’aria frizzante.”

E anche cucinare sulla barca non era impresa facile, anche se i risultati ricordati da Ferrer–ad esempio quelli del pesce in umido– suggeriscono profumi e sapori deliziosi.

Nelle rispettive gavette di metallo i marinai mettevano nel fondo dei pezzetti di galletta sui quali era stato soffregato – indovinate un po’? – dell’aglio.


(©Maccarini)

Poi sull’unico fuoco si posava una pentola di coccio con dentro molto olio, parecchi spicchi d’aglio pestati in precedenza a freddo, un’acciuga disliscata e un pochino di capperi sotto sale:
“Non appena l’aglio dimostrava con l’odore di avere perso il crudo, si doveva buttare nella casseruola un po’ si salsa di pomodoro. Ancora mezz’ora di cottura a fuoco lento e poi depositavamo sul “battuto” e sul pomidoro il pesce appena pescato tagliato a pezzi con un’altra passatina d’olio, mezzo bicchiere di vino bianco e sale. Dopo di che si copriva la casseruola muovendola ogni tanto e cuocendo il tutto per altri 20 minuti.”

Alla fine si versava il pesce sulle gallette in fondo al gavettino, e si mangiava.

“Ti giuro che sentivamo il sapore del mare”

© Mitì Vigliero, daSaporitissimo Giglio

Aglio: Metodi per Puteolar di Meno

Innanzitutto sveliamo un arcano: perché l’aglio puzza?

Tutta la pianta, ma in particolare il bulbo, contiene allicina (o alliisina, glucoside solforato), un enzima (alliinasi), vitamine A, B1, B2, C e niacina (vitamina del complesso B).

L’alliisina è inodore ma, per l’azione dell’alliinasi che si libera e agisce quando l’aglio viene schiacciato, si trasforma dapprima in allicina e successivamente in disolfuro di allile (la genina del glucoside), cioè i principi attivi più importanti che diffondono l’odore tipico dell’aglio.

L’alliisina e il disolfuro di allile sono sostanze molto volatili che si dissolvono facilmente nei liquidi e nei gas.
Una volta in circolo si propagano ovunque negli organi e nei tessuti e coinvolgono così l’intero organismo agendo con maggiore intensità sugli organi attraverso i quali vengono eliminati: i polmoni, i bronchi, i reni e la pelle. Per questo, dopo aver mangiato una bagna cauda di quelle fatte come si deve, emaniamo odore non solo dal respiro, ma anche dai capelli e dal corpo.

Ecco dunque una serie di metodi che dovrebbero per lo meno mitigare gli effetti dell’allicina:

-Masticare foglie di salvia o prezzemolo (la clorofilla contenuta funziona da deodorante naturale, rinfresca l’alito e neutralizza il tipico odore).

-Masticare alcuni chicchi di caffé.

-Bere un decotto di menta e liquerizia

-Masticare un bastoncino di liquerizia

-Masticare qualche seme d’anice

-Mangiare lentamente un cucchiaino di miele.

-Mangiare lentamente una mela intera o grattugiata.

-Bere una grappa o una sambuca.

-Bere un canarino (implume: scorza di limone in acqua calda).

-Bere un sorso di latte o qualche cucchiaino di yogurt.

-Bere un sorso di vino rosso (tradizione popolare francese)

-Masticare lentamente due compresse di carbone vegetale

-Bere del bicarbonato

-Ciucciare uno spicchio di limone

-Ingerire un intero spicchio d’aglio prima di mangiare cibi a base di aglio (tradizione popolare greca, dicono che funzioni omeopaticamente, ma non ci giurerei…)

-Risciacquare la bocca con un colluttorio preparato con soluzione di cloramina all’1%; il cloro che si libera, venendo a contatto coi tessuti, deodora completamente l’olio essenziale, perché reagisce chimicamente con esso.

©Mitì Vigliero Saporitissimo giglio 

I Sussurri di Eolo

Aglio: Antica Panacea di tutti i mali

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MirellaWognum)

L’aglio può essere considerato uno dei primi medicinali della storia umana.
Già nel 1550 aC il Codex Ebers, papiro egiziano lungo venti metri, descriveva alcune centinaia di ricette mediche a base di aglio; il medico greco Ippocrate (460-377 a.C.) invece ne esaltava le proprietà diuretiche, lassative, aperitive ed emmenagoghe, consigliando di includerlo nella maggior parte delle vivande secondo il saggio principio “il tuo cibo sia la tua unica medicina, e la medicina il tuo unico cibo”.

I metodi in cui l’aglio veniva usato nell’antica medicina, sono i più disparati.

Ad esempio,  per accertare la fecondità di una donna, sempre Ippocrate descrive il metodo – ereditato dalla medicina egiziana- della “Prova del profumo“: bisognava far bollire una testa d’aglio e, fattone un pessario, infilarlo nella vagina della donna per un giorno intero.
Se il giorno dopo “il fiato” (sia quello del naso che quello della bocca) della donna sapeva d’aglio, significava che essa poteva concepire (sic).

Da parte sua, Esculapio  eliminava i vermi intestinali con quelli che chiamava i Sussurri di Eolo: prima masticava accuratamente tre o quattro spicchi d’aglio, poi soffiava il suo alito sull’ombelico dell’ammalato: secondo lui, i vermi fuggivano, disturbati dall’odore.
 
Discoride fu il primo a scoprirne ufficialmente le virtù tenifughe, atte cioè a combattere le infestazioni da tenia; invece Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, racconta che ogni soldato romano, sia in battaglia che nel corso delle esercitazioni, doveva avere per legge la sua scorta di Allium sativum ben conservato, e doveva consumarne una testa al giorno contro le infezioni e le diverse epidemie (era il chinino di allora) perché “vermifugo, odontalgico, diuretico neutralizza tutti i veleni, guarisce la lebbra, l’asma e la tosse”.

 A sua volta Pedanio Dioscoride, farmacologo greco del I secolo d.C. che fu per lungo tempo  il medico ufficiale dell’esercito romano, nella sua Materia medica a proposito dell’aglio scriveva:

E’ aspro, stimola l’intestino, asciuga lo stomaco, mette sete e riduce le escrescenze della pelle.
Se introdotto nella dieta regolarmente è diuretico, e aiuta ad eliminare i parassiti intestinali.
Se macerato nel vino è ottimo contro i morsi di serpente e cani rabbiosi. Se consumato crudo o bollito schiarisce la voce e allevia la tosse.
Se bollito insieme con l’origano debella i pidocchi e le cimici.
Se bruciato e mischiato col miele, cura le macchie bianche della pelle, l’herpes, le eruzioni cutanee da fegato, lebbra e scorbuto.
Se bollito con legno di pino e incenso allevia il mal di denti.
Se abbinato alle foglie di fico e ai semi di cumino, funziona da cataplasma contro i morsi del topo ragno.
Se utilizzato insieme con le olive nere, potenzia l’effetto diuretico.
E’ utile anche per alleviare i dolori del travaglio e favorisce la fuoriuscita della placenta

In compenso, i lottatori dell’antica Grecia  lo usavano come micidiale “doping” prima delle gare; secondo loro aumentava la forza e la resistenza, secondo altri maligni e invidiosi dell’ellenica abilità sportiva, era tutto merito dei diabolici effluvi che emanavano se essi vincevano regolarmente gli incontri.

 “L’aglio mangiato ne’ cibi, è rimedio a tutti i veleni, et però si chiama la Theriaca de’ villani” sentenziava Castor Durante nel Tesoro della sanità, mentre il Pisanelli, nel suo Trattato della natura de’ cibi e del bere scriveva:
“L’aglio dona sempre giovamenti: secco è contra il veleno, fresco chiarisce la voce, ammazza i vermi, provoca il coito e l’orina”. 
E due secoli fa Sir John Harrington, medico britannico autore de The Englishman’s Doctor, raccomandava:
“L’aglio ha la proprietà di salvare dalla morte; sopportalo, anche se rende l’alito disgustoso, e non disprezzarlo come quelli che sono convinti che faccia solo bruciare gli occhi, bere smodatamente e puzzare”.

 Nel Settecento, in Francia, il suo forte sapore veniva usato per mascherare quelli atroci della cantaride o dell’ambra grigia che si mettevano nei cibi per renderli afrodisiaci; ma spesso, nonostante l’aglio, se si sbagliavano le dosi, si finiva condannati a morte per tentato avvelenamento, come capitò nel 1772 a quel gentile signore nomato Marchese de Sade.

Invece l’ignoto autore dell’un tempo diffusissimo Manuale di medicina domestica  (edizioni Cioffi, 1863), alla voce aglio scriveva:
“Si è dimostrato alla prova un ottimo antisettico per le vie respiratorie, con esito meraviglioso nelle bronchiti fetide; giova ai tubercolosi e ai rachitici; in casi di epidemie, mangiate dell’aglio come cura preventiva”, concludendo infine lapalissianamente: “Se non volete dar noia col vostro fiato a’ parenti e a’ vicini, consigliate la cura anche a loro”.

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Plinio definì per primo l’aglio “la miglior prevenzione contro la peste”, convinzione che durò secoli e secoli.
Il celeberrimo “Aceto dei quattro ladri”, ad esempio, nacque nel XII secolo proprio durante una terribile epidemia di “Morte Nera”.
Narra la leggenda che quattro delinquenti, approfittando della calamità, svaligiavano le case e le botteghe delle contrade infette rimanendo sempre indenni dal contagio.
E sapete perché? Perché usavano intridersi di una pozione miracolosa, che aveva come base l’aceto e varie erbe, tra cui l’aglio.
Ancora oggi qualcuno lo usa non con intenzioni di sciacallaggio, ma come semplice disinfettante per detergere le ferite o sterilizzare le mani .
La formula magica, una delle tante, è questa:

20 gr. di cime fiorite di assenzio romano, rosmarino, salvia, menta, ruta e lavanda
30 gr di aglio, noce moscata, chiodi di garofano, calamo aromatico, cannella
5 gr di canfora
1 litro e un quarto di purissimo aceto di vino bianco
.
Macerare gli ingredienti per 10 giorni, poi filtrare e conservare il liquido in una bottiglia scura che abbia il tappo di vetro smerigliato.

Durante le 45 epidemie di peste che martoriarono l’Europa tra il 1500 e il 1720,  si diffuse una macabra filastrocca che i bimbi cantavano giulivi facendo il girotondo:

Una ghirlanda di rose,
un mazzolino d’aglio,
ed eccì ed ecciù,
tutti cadiamo giù
.

La ghirlanda di rose si riferisce ai piccoli esantemi, pustoline rosse che comparivano sul corpo delle persone infette, il primo sintomo della Morte Nera. Il mazzolino d’aglio era il simbolo della convinzione che gli odori forti e penetranti combattessero il fiato tossico dei demoni diffusori della malattia;  l’ “eccì ecciù” raffigura onomatopeicamente la raffica di starnuti che era un altro sintomo della peste, mentre infine la frase  “tutti cadono giù” alludeva alle migliaia di morti causate dall’orrenda tabe.

Durante l’epidemia di peste annata 1528 a Bordeaux, un ancora non noto Nostradamus per impedire l’ulteriore diffondersi del morbo chiese ed ottenne dalle autorità che i cadaveri venissero sotterrati profondamente con strati di calce viva, consigliò l’incenerimento dei rifiuti per evitare il nutrimento dei topi e delle loro terribili pulci, ma soprattutto pretese che ovunque venisse osservata la più scrupolosa igiene del corpo, con cambi frequenti di abiti, utilizzo di maschere filtranti (tipo quella dell’immagine) e frequenti frizioni di vesti, maschere e mani con una pozione di sua invenzione, a base di aglio e aloe, che doveva anche essere ingerita a mo’ di vaccino.

Ma anche per le nuove “pesti” l’aglio resta importante.
Dopo l’11 settembre, funesta e indimenticabile data della tragedia delle Twin Towers di New York, vi fu il terrore di un altro atto terroristico, quello dell’epidemia di antrace diffusa tramite posta.
Immediatamente si diffuse la leggenda metropolitana che le lettere all’antrace, per essere “disinnescate”, dovessero venire aperte con le mani impregnate di succo d’aglio, e poi accuratamente stirate con ferri a vapore nel cui serbatoio si fossero in precedenza versate gocce d’estratto sempre d’aglio.

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Per lungo tempo nell’Italia rurale, l’aglio fu la base di ogni medicamento:   in Romagna considerato l’antidolorifico più efficace, nel Bolognese validissimo per curare le otiti, nel Polesine e in Sardegna un valido rimedio contro i dolori di ventre.
Gli spicchi venivano usati esternamente per combattere coliche (Sicilia),  mal di denti (Modenese),  geloni (Puglia),  mal di gola (Valle d’Elsa) e  piattole (Friuli). 

Erano soprattutto le nonnine ad apprezzare molto le virtù medicamentose dell’aglio, l’unico – anche secondo loro, inconsapevoli seguaci di Esculapio – portentoso cacciavermi dal pancino dei loro nipoti; per questo ne facevano ingurgitare spicchi interi ai bambini, o ammannivano loro brodini in cui l’aglio pestato galleggiava al posto della pastina.

Non contente, ne appendevano sulle culle vezzose ghirlande, le stesse che ponevano a mo’ di collana terapeutica attorno al collo dei poveri innocenti appena cominciavano a camminare. 

 Se una “botta di vermi” particolarmente grave colpiva un piccolo, veniva allora chiamato un guaritore possibilmente settimino (pare che ogni paese ne fosse fornito) il quale massaggiava l’epa del paziente con aglio e olio, pronunciando formule in cui solitamente venivano invocati  Santi e Beati.

In Sicilia, una delle tante formule scaramantiche antivermi all’aglio era questa:

Cui tri nomi dilla Crozza
Patre e Figghiu e Santu Spiritu,
sutta l’occhiu di Maria
cu la Crozza supra a panza
u spicchiu d’agghiu,
guccieddra d’ogghiu,
cacciu i vermi nell’Infernu
.

©Mitì Vigliero,  da Saporitissimo Giglio