Le Burde Dolorose: Il Compianto del Cristo Morto di Nicolò dell’Arca a Bologna

Ne “Le faville del maglio Gabriele D’Annunzio racconta una sera d’autunno, quando da ragazzino entrò col padre in una chiesa a Bologna per ascoltare della musica sacra.

Mentre il padre sedeva su una panca, egli si mise a vagolare nella chiesa fiocamente illuminata e ad un tratto si trovò di fronte qualcosa che lo colpì profondamente:

Intravidi nell’ombra non so che agitazione impetuosa di dolore. Piuttosto che intravedere, mi sembrò esser percosso da un vento di dolore, da un nembo di sciagura, da uno schianto di passione selvaggia.”

Che cosa aveva visto?

Per scoprirlo andate in via Clavature 10 ed entrate nella chiesa Santa Maria della Vita, nome derivato dal fatto che faceva parte di un complesso ospedaliero (Ospedale della Vita) fondato dall’antichissima Confraternita dei Devoti Battuti, flagellanti convinti che il dolore fisico fosse l’unico modo per riportare la pace nel mondo.

All’interno, nella cappella di destra a fianco dell’altar maggiore, vi è un’opera d’arte che la Confraternita commissionò a Nicolò dell’Arca nel 1460: il Compianto del Cristo Morto.

Guardandola si capisce perché l’Imaginifico allora ne rimanesse sconvoltonon è la solita Pietà che raffigura il dolore composto e rassegnato della Vergine e degli amici riuniti attorno al cadavere appena deposto dalla croce.

Non vi è nulla di asceticodivino e silenziosamente solenne in quelle figure in terracotta, a grandezza naturale, che circondano quel cadavere.

Si tratta di veri, semplici esseri umani che dimostrano con gesti e movimenti ed espressioni la disperazione più assoluta che si prova di fronte alla morte di una persona cara.

E’ una rappresentazione universale del dolore; Gesù, la Vergine, Giovanni Apostolo, Giuseppe d’Arimatea e le tre Marie (di Cleofe, di Salonne e la Maddalena) interpretano da secoli la parte di parenti e amici colti nel momento del massimo “dolore furiale”.

Giuseppe in ginocchio, con in mano il martello col quale ha tolto i chiodi che reggevano Cristo alla croce; col volto girato verso chi osserva e lo sguardo che pare chiedere: “Trovi parole, tu?

Giovanni, che col braccio sinistro si cinge la vita e con la mano destra si regge il viso; gli occhi fissi, inebetiti, volti da una parte, come per non guardare quel Corpo che sempre D’Annunzio descrive “supino, rigido, coi piedi incrostati di grumi risecchi trafitti dal chiodo che aveva lasciato uno squarcio aspro, teneva distese le braccia e le mani conserte su l’anguinaia, annerata la faccia, la barba ingrommata”.

Immobilizzati nel dolore gli uomini, al contrario delle quattro donne; la Madre accartocciata su se stessa, piegata da un lato come spezzata, le mani non giunte ma strette a pugno l’una contro l’altra, il viso straziato. Maria di Salonne al suo fianco pare lanciare urla soffocate, piantandosi le unghie nelle cosce tentando di trattenere l’esplosione  del dolore.  Maria di Cleofe tende le mani come per nascondere alla vista quella morte; le vesti agitate dal vento, sembra tremare.

Ma la più sconvolgente è Maddalena; un’ossessa che arriva di corsa (“Puoi tu immaginare nel mezzo della tragedia cristiana l’irruzione dell’Erinni?”) scomposta nella veste svolazzante, il viso deformato dalla bocca spalancata in un lacerante “urlo impietrato”, gli occhi bassi a guardare il corpo, gonfi e pieni di lacrime.

Oggi quel gruppo scultoreo è considerato uno dei più belli della nostra Storia dell’Arte (quiqui e qui tre video che mostrano l’opera nei dettagli), eppure dal 1600 in poi gli Amministratori dell’Ospedale della Vita lo rifiutarono, dicendo che spaventava gli ammalati e lo nascosero in una nicchia. Ad un certo punto finì addirittura all’aperto, nei pressi del mercato.

Da lì nacque il soprannome crudele affibbiato dal popolo bolognese alle Marie disperate: le Burde (streghe).

E se i bambini facevano i capricci, le mamme minacciavano: “Guarda che ti porto dalle Burde!”

© Mitì Vigliero

 

19 marzo San Giuseppe: Pani, Frittelle italiani e la ricetta dei Frisciêu genovesi

(foto ©Vincenzo Giompaolo)

Secondo l’antico simbolismo agricolo, marzo rappresenta il risveglio della natura: nei campi inizia a germogliare sempre più rapidamente il grano, simbolo di vita e fecondità.
In epoca romana, il 17 marzo si svolgevano le Liberalia,  feste dedicate a Liber Pater, Padre Libero, dio e simbolo della fecondità della Terra e dell’Uomo.

Il suo tempio nel 495 aC era sull’Aventino; lì i ragazzi che avevano compiuto i 16 anni, con una solenne cerimonia indossavano la toga virile e venivano considerati adulti a tutti gli effetti, liberi quindi anche di riprodursi e “metter su famiglia”.

Al dio e agli astanti venivano offerti pani e dolci di farina fritti nell’olio mentre bruciavano grandi falò simboleggianti l’allontanamento del buio e freddo inverno e l’arrivo della primavera vivificatrice.

Col Cristianesimo la figura di Liber Pater venne sostituita da un altro padre-simbolo, San Giuseppe, festeggiato il 19 marzo sempre con beneauguranti falò (“fugarèni” in Romagna; “vampi” in Sicilia, “fanòve” in Puglia ecc) e grandi mangiate di dolci di farina fritti nell’oliopani sacrali, che interrompevano per un giorno il lunghissimo digiuno quaresimale che c’era allora.

Soprattutto in meridione sopravvivono ancora le antiche cerimonie medioevali dette “tavolate di San Giuseppe” (celebri quelle di Salemi, dette “cene”): nelle famiglie e nelle piazze vengono invitati a tavola un uomo, una donna e un bambino, scelti fra i meno abbienti del paese.

Questi rappresentano la Sacra Famiglia in fuga, che chiedeva ospitalità e cibo.


(foto da qui)

Nelle case e nelle chiese della Sicilia, ad esempio, sono imbaditi altarini votivi (detti cudduri) ricoperti di cibi meravigliosi pani dalle varie forme e nomi.
Troviamo ad esempio “a Cruci” (la croce) , “u vastuni di lu Patriarca” (il bastone di Giuseppe fiorito di gigli); “la Spera” ( ripieno di fichi secchi simboleggiante l’Ostensorio e decorato dalle lettere JHS, Jesus Hominum Salvator); “il Cuore” (simbolo de la Sacra Famiglia e decoranto con le inziali dei loro nomi G.M.G., Giuseppe, Maria; Gesù).

(©Vittorio Caltabiano)

Ma elemento comune che caratterizza la festa nello Stivale sono le frittelle.

Il 19 marzo i frittellari di tutta Italia si scatenano: “bigné di San Giuseppe” (Lazio); “zeppole” (Campania); “frittelle di riso” (Toscana, Umbria); “crespeddi, sfinci” (Sicilia); “raviole” (Emilia) e “frisciêu” in Liguria.

A proposito di questi ultimi, dato che San Giuseppe è anche il patrono dei falegnami, sino alla fine dell’Ottocento nelle numerose botteghe sparse nel centro storico genovese le corporazioni degli artigiani del legno omaggiavano il Santo allestendo sui loro banconi ripuliti da trucioli e segatura, dei rinfreschi composti da vino bianco e, appunto, frisceu co’ zibibbo (uvetta).

Amici, parenti, clienti, vicini di negozio erano invitati a festeggiare e tutti rimanevano in fremente attesa che uno di loro addentasse un friscieu speciale, ripieno d’ovatta: il tapino vittima dello scherzo, se non moriva soffocato dal gramo boccone, doveva pagar pegno offrendo da bere a tutti.

frisciêu genovesi si fanno così:

300 gr di farina; 1/4 di cubetto di lievito di birra
1 uovo
acqua tiepida o latte qb per stemperare il lievito
sale
100 gr di zucchero
70 gr di uvetta sultanina piccolissima
la buccia di 1 limone
zucchero vanigliato
olio

Mettere in una ciotola la farina, il lievito ben stemperato in acqua o latte, l’uovo, lo zucchero, la buccia di limone tritata e un pizzico di sale. Sbattere bene e a lungo; lasciar lievitare per 3 ore. Unire poi l’uvetta ammollata nell’acqua e ben asciugata: mescolare.
In una larga padella far scaldare olio abbondante e quando fuma gettarvi l’impasto a cucchiaiate. Quando si formeranno frisceu a palline ben gonfie e dorate (bastano due/tre minuti), pescarli col mestolo bucato, asciugarli su carta assorbente e servirli caldissimi, spolverati di zucchero vanigliato.

© Mitì Vigliero

I frisciêu di San Giuseppe

 In italiano il termine genovese frisciêu (e il circonflesso andrebbe sul dittongo “eu”, solo che non riesco a metterlo), solitamente viene tradotto come “frittella”; ciò non rende bene l’idea, perché frittella indica una composizione di pasta fritta e piatta, mentre i frisceu sono fritti, sì, ma hanno la forma di palline gonfie, leggere, tonde e morbide.

Loro base è la “pastetta”, fatta con farina e lievito di birra, sale e un poco di acqua tiepida o latte.
In Liguria si mangiano oggi 19 marzo, giorno di San Giuseppe; e dato che San Giuseppe è anche il patrono dei falegnami, sino al 1800 nelle numerose botteghe sparse nel centro storico genovese gli artigiani del legno omaggiavano il Santo allestendo sui loro banconi, ripuliti perfettamente da trucioli e segatura, dei rinfreschi composti di vino bianco, focaccia e, appunto, grandi vassoi di frisciêu.

Tutti gli amici, colleghi, parenti, passanti, vicini di bottega erano invitati e tutti festeggiavano brindando e mangiando, nell’attesa che uno di loro addentasse un frisciêu speciale, ripieno di ovatta: il tapino vittima dello scherzo,  se non moriva soffocato, tra le risate collettive doveva pagare pegno offrendo da bere a tutti.

Ecco due ricette (per 6 persone).

Frisciêu classici salati

500 gr di farina, 25 gr di lievito di birra; 1/4 d’acqua tiepida o latte; sale; olio.

Mettere in una ciotola la farina; unire il lievito sciolto in acqua tiepida, aggiungere l’acqua o il latte, salare e mescolare bene sino a formare una pastella semiliquida. Lasciarla lievitare per un paio d’ore, quando sarà gonfia (praticamente avrà raddoppiato il volume), friggerla a cucchiaiate in olio bollente, sino a quando si gonfierà in pallle dorate e leggere che, una volta scolate e asciugate su carta assorbente, andranno mangiate bollenti. 

Frisciêu con lo zibibbo

500 gr di farina; 200 gr di zucchero; 100 gr di zibibbo (uvetta); 4 uova; 1/4 di latte; 25 gr di lievito di birra; 1 limone; olio di frantoio; zucchero vanigliato; sale.

Mettere in una ciotola farina, latte, zucchero, lievito stemperato in acqua tiepida, la buccia del limone grattugiata e un po’ di sale. Agitare bene e a lungo con un mestolo, e lasciar lievitare per circa 3 ore. Unire l’uvetta ammollata, scaldare in padella l’olio; quando fuma, gettarvi a cucchiaiate l’impasto. Una volta gonfi e dorati togliere i friscieu, scolarli, asciugarli e spolverarli con zucchero vanigliato.

Conoscete altri cibi tradizionali di San Giuseppe?

Roger: in Toscana le Frittelle di Riso (ricetta)

Angela: in Puglia Zeppole (legnetti, bastoncelli) di s. Giuseppe (ricetta)

Marchino: Da noi (Crema) si chiamano Chisòi o Chisulì, e la ricetta contempla anche l’uso di riso bollito avanzato.

Francesca: a Roma i bigné di San Giuseppe (ricetta?)

Princy: In quelli salati si può mettere anhe una cipollina novella o della lattuga tagliate finemente.

Sciura Pina: A casa mia si facevano le frittelle con l’uvetta e la mela, ma non so se si tratti di cucina tipica milanese o solo della mia famiglia

Grazitaly: A Bergamo ci sono “i fritele” che sono solo con lo zucchero.

Primo Casalini: Venetorum modum referam.

Maxime e le Zeppole di San Giuseppe

Laura: A Roma i bignè di San Giuseppe, sono fritti ripieni con la crema. Gli ingredienti sono: farina, latte, uova, burro e zucchero.

Giorgia: Bigné di San Giuseppe:

ingredienti: 100 gr di farina, 50 gr di burro, 2 uova, 3 cucchiai di zucchero, zucchero vanigliato, sale, scorza di limone grattugiata, olio extra vergine d’oliva. 

come si fanno: scaldare un bicchiere d’acqua con il burro ed un pizzico di sale; una volta che è bollente, versare la farina setacciando e continuare a cuocere a fuoco medio basso mescolando per 5 minuti; lasciare raffreddare, nel frattempo si sbattono le uova (no, non per terra, in una terrina) con lo zucchero e la scorza grattuggiata di un limone (per grattuggiare la scorza del limone senza che la maggiorparte vada perso nei denti della grattuggia, frapporre tra il limone e la grattuggia un foglio di carta forno: il limone si grattuggia ugualmente ma non rimane imprigionato, bensì, togliendo la carta forno, tutto quello che senza di essa sarebbe rimasto tra i denti della grattuggia è invece sulla carta forno e lo si recupera in mezzo secondo.).Incorporare le uova sbattute ecc nel composto di prima, ormai raffreddato. Mettere in una padella profonda (magari un wok) a scaldare un bel po’ di olio (mia mamma fa metà extravergine di oliva e metà olio di semi di arachide). *non* farlo fumare – controllare che sia al punto giusto con uno stecchino per spiedini (se immergendolo si forma uno sfrigoliìo tutt’intorno, l’olio è pronto per friggere). Versare il composto a friggere a cucchiaiate. Quando i bignè si gonfiano si scolano dall’olio e si mettono ad asciugare sulla carta assorbente. poi si cospargono di zucchero vanigliato. Infine si mangiano. :)