(foto ©Cozla)
Il sottosuolo di Napoli ha più buchi d’una forma di groviera; gallerie e cunicoli scavati nel tufo che servivano come depositi, serbatoi d’acqua, scolatoi di lava, passaggi di sicurezza e cimiteri diciamo “d’emergenza”.
Sino a quando l’editto napoleonico di Saint-Cloud (1804) non intervenne per mettere ordine nelle sepolture, proibendole all’interno delle città e nei luoghi pubblici, a Napoli ogni cittadino di buona condizione voleva essere seppellito in chiesa; questo portava ad un sovraffollamento non propriamente igienico , creando in certi casi situazioni intollerabili come avvenne ad esempio per la peste del 1636 (250.000 vittime) e per il colera del 1836.
I “salmàri” in molti casi facevano finta di tumulare i corpi in chiesa, ma appena calavano le tenebre quatti quatti li scaraventavano in uno dei tanti sotterranei, con buona pace delle anime loro.
Proprio durante la peste iniziò a svilupparsi un fortissimo culto nei confronti delle Anime del Purgatorio: tante morti improvvise di sicuro avevano intasato il Luogo d’Attesa e poi quelle anime erano simpatiche, ancora terrene, soprattutto bisognose di preghiere per ottenere la salvezza e quindi disposte a fare in cambio piccoli favori, come esaudire desideri, dispensare guarigioni, elargire ricchezze tramite vincite al gioco.
Così negli ipogei zeppi di ossa abbandonate e senza nome della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio in via dei Tribunali 39- conosciuta come la “Chiesa d’e ccape ‘e morte”, teste di morto – e del Cimitero delle Fontanelle (tutto intorno via dei Tribunali, la strada dove Eduardo De Filippo non per nulla ambientò “Questi fantasmi”) fra le donne partenopee fiorì l’usanza di adottare un’anima “pezzentella”, ossia senza parenti legali, scegliendone con cura la “capuzzèlla” (il teschio), spolverandola, mettendola al riparo in uno “scaravàttuolo” (una tombìna), coccolandola col “refrìsco” (un rito antico e complicato fatto di preghiere e attenzioni, di cui vi parlerò un’altra volta) e dandole un nome.
(foto ©Cozla)
Roger Peyrefitte (in “Dal Vesuvio all’Etna”, 1954) così descriveva una sua visita a Fontanelle:
“La scelta di un teschio non si fa alla leggera. La gente cammina lentamente da una parte all’altra delle gallerie, scruta quei tristi avanzi di morti; ad un tratto si ferma, si china per prendere un teschio, l’esamina da tutte le parti, lo gira e lo rigira, lo palpa, lo soppesa e l’annusa. Segue subito dopo la ripulitura. Ho visto alcune giovani donne procedervi con un’arte casalinga: spazzolatura, pulitura con alcol, lucidatura con cera da mobili”.
La Pezzentella diventava parte della famiglia; visitata almeno una volta la settimana, a lei ci si confidava e si chiedevano grazie tramite bigliettini lasciati nella capuzzella.
Ad esempio, eccone uno che sperava in una vincita al Lotto: Anima bella venitemi in sogno e fatemi sapere come vi chiamate. Fatemi la grazia di farmi uscire la mia serie della cartella Nazionale. Anima bella fatemi questa grazia, a buon rendere…
(foto ©Cozla)
Se però le grazie non arrivavano, l’adottante le teneva il muso iniziando a maneggiarla bruscamente, evitando di spolverarla, ignorandola ostentatamente sino ad arrivare, in casi estremi, a ripudiarla con ignominia, sostituendola con un’altra.
Nel 1969 questo genere di culto in odor di superstizione fu proibito dalla Chiesa, ma con scarsi risultati.
Ci volle il terremoto del 1980 a rendere inagibili per lungo tempo gli ipogei, frenando obbligatoriamente l’usanza: ma mai abolendola del tutto.
Oggi il Cimitero delle Fontanelle, dopo lunghissimi lavori di ristruttrazione e consolidamento delle strutture e grazie anche a una pacifica manifestazione con tanto di occupazione del luogo che gli abitanti di Rione Sanità hanno fatto il 23 maggio scorso, è finalmente di nuovo aperto a pubblico: e le Pezzentelle si sentiranno meno sole.
(Il set completo delle fotografie di Cozla, che ringrazio per avermele imprestate, è qui.)