Perché quindi non provare a coltivarli anche in Europa?
La saggia proposta di padre Josè suscitò scalpore: mangiare quei cosi, che di certo erano velenosi vista la loro strana forma di abnorme bacca? Per non parlare del colore, rosso come il fuoco dell’Inferno.
Eppoi nel Vecchio Mondo era consuetudine antica quella del “mangiare bianco“, simbolo di purezza per l’organismo; al massimo si condivano i cibi con tonnellate di cannella, mandorle, miele e acqua di rose e di arancio…
Così, i primi esemplari di pomodori introdotti dalla Spagna nel Vicereame di Napoli, rimasero una mera curiosità botanica; data la loro forma piccolina (simili a quelli che ancora oggi chiamiamo ciliegini), vennero appunto classificati come licepersicum cerasiforme, praticamente considerati grosse ciliegie.
Dovettero trascorrere ancora quasi due secoli prima che qualcuno scoprisse le vere virtù del ciliegione, e non fu un napoletano a farlo bensì un cuoco francese rimasto sconosciuto il quale, entusiasta, lo chiamò “pomme d’amour”, esaltandone le doti afrodisiache.
Che fosse afrodisiaco ovviamente non era vero per niente; ma forse fu la molla che spinse gli italiani a convertirsi all’ottimo ortaggio, pur sempre con molta cautela visto che ancora il 29 maggio 1787 Wolfang Goethe, nel diario del suo viaggio in Italia, raccontava aver mangiato a Napoli zuppe di pesce, polpi e maccheroni, deliziosi sì ma tutti ancora rigorosamente cucinati in bianco, senza la minima traccia di pomodoro.
Fu ufficialmente nel 1839 che il napoletano Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino , autore della Cucina teorico-pratica, pubblicò un “saggio” sulla “Sauza di pommadore ammature” (salsa di pomodoro maturo); che l’avesse inventata lui o un suo cuoco, non è dato sapere.
Fatto sta che il nobiluomo suggeriva di metterla “ncopp’a la carne, ncoppa li pulle, ncoppa lo pesce, ncoppa l’ova”, ‘ncoppa ovunque tranne che, chissà perché, sulla pasta.
Ma fu proprio il popolo napoletano che, pratico e affamato, volle per primo farne la prova, mettendo la pummarola sul cibo che consumava di più perché nutriente e poco costoso: maccheroni e pizza.
Fu un trionfo che dilagò ovunque.
Dalla metà dell’Ottocento dall’America giunsero le qualità di pomodori più grandi che mantenevano nomi anglosassoni: Liwingston, Duke of York, Perfection, Champion, Mikade, e in Italia nacquero il Genovese, il Riccio di Parma, il Rosso costoluto, il Riccio romagnolo, il Sanmarzano, il Roma e via di seguito.
Fu così che, dopo aver avuto tante difficoltà nell’essere accettato il pomodoro divenne infine, volenti o nolenti, uno dei simboli d’Italia.
© Mitì Vigliero