“Casa” e “Casa Mia”: riflessioni dedicate a chi ha bisogno di Radici

Io sono nata a Torino, i miei abitavano in via Colli.

E poi sono stata a Verona, a Mondovì (ma ero troppo piccola per ricordarle) e poi di nuovo a Torino, in due case diverse (Corso Dante e via Canova) sino alla mia laurea.

E poi mi sono trasferita a Genova, dove ho cambiato anche qui tre case e tre zone.

Unica casa “fissa” della mia vita, quella avìta, a Margarita; ma per me, pur amandola tanto, è sempre stata casa di vacanza, non di stabilità.

Sino a qualche anno fa provavo una sorta di “destabilizzamento“; cercavo di capire a quale Casa e Città appartenessi veramente.

E soprattutto, dov’erano le mie radici.

Non tutti sentono il bisogno di radici lunghe, solide, ben piantate in una Terra-Casa amata che si sente “propria”.

Io sì.

E credo di non essere la sola, visto che sono tante le persone che, dopo essersi trasferite altrove dal luogo di nascita e averci vissuto anni e anni, ad un certo punto della loro vita tornano a Casa.

Oppure scelgono un’altra terra e un’altra Casa, in un luogo che hanno sognato per sempre e che istintivamente sentivano loro.

Ebbene, io ora so e sento che Casa Mia non è quella in cui sono nata e pur sono stata bene; dove sono cresciuta fisicamente, formata caratterialmente e culturalmente.

Ma ora so che la vera Casa Mia è questa, in cui ora vivo vicino a chi amo e conto di viverci per sempre.

Casa di cielo e di muri, Genova Castelletto, dalle strade in salita e lo sguardo che domina monte e mare.

Qui le mie radici tardive hanno ben attecchito; forse perché era già terra di famiglia, qui c’erano i nonni (anche se uno solo di loro era genovese, gli altri di razza SaleLanghe e Milano).

Forse perché è una Terra che mi somiglia, che bada assai poco alle apparenze esterne e molto alle concretezze interne.

Non so di preciso il perché: so solo che sono felice così.

E voi a cosa pensate quando dite “Casa mia”?

©Mitì Vigliero

In Campagna non fa freddo: Galòp.

 

 

La Casa dove non fa freddo


Oggi sarò lì; non so se farà materialmente freddo o no (le previsioni meteo sono schifosine), ma ogni tanto fa bene tornare alle radici.

A domani!

Storia della Liquirizia

Nelle corti britanniche del Medioevo, era in auge un romantico ritornello che i cavalieri dedicavano alle dame amate:”L’amore è sogno, dolce come latte e liquirizia“.

E lo stesso nome scientifico della pianta leguminosa da cui si estrae la liquirizia ne conferma la dolcezza: glycyrrhiza, dal greco glucos, dolce e riza, radice.

Pare incredibile, ma la sua dolcezza supera per ben cinquanta volte quella dello zucchero, ed è talmente potente che una piccola parte di liquirizia lasciata macerare in 20.000 litri d’acqua riesce sempre a far percepire il suo caratteristico sapore.

Crescendo spontaneamente in tutta la zona mediterranea (ma anche in Germania, Inghilterra, Russia, Asia e Australia) già nell’antichità era tenuta in somma considerazione dai medici: Ippocrate, Galeno, Dioscoride, Teofrasto e Plinio la giudicavano insostituibile per combattere il mal di fegato, le gastriti, le coliche renali, le tossi convulse e, lavorata in pomata, ottimo cicatrizzante per le ferite.
Ma la virtù che più la faceva amare era quella dissetante; pensate che gli Sciti, mangiando esclusivamente formaggi di capra e liquirizia, riuscivano a camminare per più di dieci ore nel deserto, sotto il sole cocente e l’arsura, senza patire affatto la sete.

Questo suo effetto balsamico era il più apprezzato: in un trattato del Trecento dedicato all’Agricoltura, l’autore Palestro de’ Crescenzi affermava che “la regolitia masticata e tenuta sotto la lingua mitiga la sete e l’asprezza de la lingua e de la gola“, e nei testi medici settecenteschi, agli inappetenti e ai crapuloni, veniva raccomandato di bere prima e dopo i pasti un bicchierino di vino in cui fosse stata posta a macerare una radice di liquirizia.

Per questo la liquirizia fu, per secoli, di quasi esclusiva competenza della farmacopea: si comprava solo in farmacia, tagliata a pezzetti legnosi, ed era carissima.

Anche agli inizi del Novecento, soltanto in farmacia era possibile acquistare le scatolette tonde di metallo bianco e nero, contenenti le celeberrime Pasticche del Re Sole, ma fu solo nel primo trentennio che entrò ufficialmente a far parte dell’industria, grazie a una ditta dolciaria milanese che, nel 1932, lanciò sul mercato una pastiglia di liquirizia pesante esattamente un grammo, e fasciata in carta paraffinata bianca e verde: la mitica Golia, acquistabile solo in pasticceria.

Negli anni ’50, gli americani scoprirono (sempre un po’ più tardi di noi…) le proprietà calmanti e anti infiammatorie del prodotto, e decisero di pubblicizzarlo come “antidoto antifumo“, ossia capace di mitigare i danni di sigari e sigarette; da allora, in tutto il mondo, la liquirizia fu venduta anche in tabaccheria.

Dal Sessanta in poi, della dolcissima radice vennero dimenticate le virtù terapeutiche, ed esaltate soltanto quelle “golose“, esposte sui banchi dei negozi alimentari, racchiuse in grandi vasi di vetro e vendute in cartoccini: pesciolini, siringhe, anicini (minuscoli rombi), senateur (profumati alla violetta), bacchette, tronchetti rifascianti pasta di zucchero colorato e le classiche radici, messe in bocca e succhiate per estrarne il succo, sino a ridurle in una lunga barba legnosa.

La produzione della liquirizia ä affascinante, perché antichissima e profondamente legata alle tradizioni del nostro Sud. Le “vere” fabbriche artigianali oggi sono pochissime, concentrate soprattutto in Calabria, e si chiamano conci.

La coltivazione della radice, sino a pochi anni fa, avveniva ogni quattro anni: nel terreno si coltivava un anno grano, poi maggese, poi pascolo e infine, quando la terra aveva raggiunto il giusto grado di azoto, liquirizia.
Veniva poi raccolta in fascine simili a rametti di legno; le radici venivano fatte bollire in speciali fornaci chiamate bassine, sino a quando si otteneva una pasta.
Questa veniva pressata, ribollita e infine lavorata a mano, ancora bollente, dalle donne, che l’impastavano proprio come si fa col pane.
Infine, veniva tagliata nelle forme scelte, e lucidata a vapore.

Oggi questo lungo lavoro viene quasi sempre svolto da macchine computerizzate.
Ma gli esperti “liquiriziomani” giurano che il sapore di una liquirizia lavorata a mano è del tutto diverso di quello di una lavorata a macchina: un po’ come mangiare tagliatelle fatte in casa o quelle acquistate in pastificio.

©Mitì Vigliero

Corollario

E a Genova si dice regolìçia (pron. regolissia)
Roma si dice: Damme na rigulizia (Mimosafiorita)
In spagnolo si dice “regaliz” (Sancla)
In provincia di Padova viene chiamata “sigurìsia” (Pimpirulin)
a genova nello specifico il bastoncino di liquirizia da succhiare si chiama reganissu . (Luca)
in Romagna è “rigurìzia”. “L’è d’culòr d’la rigurìzia”: si dice di chi è terreo, giallastro. (Cristella)
-Il gelato alla liquerizia di Tittieco