La Leggenda dei Giorni Della Vecchia e I dé d’la Canucéra Ovvero: La Coda Dell’Inverno

I GIORNI DELLA VECCHIA

(©Lisa Knechtel)

Marzo è mese dedicato a Marte, divinità dall’umore instabile ed irascibile e non a caso, visto che era il Dio della guerra.

Il suo brutto carattere venne riconosciuto dagli umani sin dall’antichità, soprattutto dal punto di vista meteorologico; pur mostrando netti segni di fine inverno con fiori e germogli, giornate calde, uccellini intenti alla fabbricazione del nido e risveglio della Natura in genere, l’esperienza contadina sa che di lui occorre sempre diffidare perché, come dice il proverbio, “Al principio, a metà o alla fine, sempre Marzo versa il suo veleno” con freddi improvvisi e dannosi che solitamente vengono definiti dai meteorologi “coda dell’Inverno

Un’antica leggenda  racconta che Marzo, tanti e tanti anni fa, aveva solo 28 giorni.
Ma visto che gli uomini lo prendevano sottogamba, non temendolo certamente come i suoi rigidi fratelli Dicembre, Gennaio e Febbraio, decise di vendicarsi allora (e ancora lo fa, anche se non rispetta perfettamente i tempi).

La colpa fu tutta di una vecchia pastora che per tutto il mese, con grande fatica, era riuscita a proteggere i suoi agnellini dai repentini sbalzi climatici marzolini; questa, la sera del 28 esclamò in tono sfottente “E ora con la tua fine la pianterai di fare il matto, oh Marzo bislacco!”.

Fu così che il mese, atrocemente offeso, chiese in prestito ad Aprile tre giorni in cui scatenare tutta la sua cattiveria con gelo, neve e vento. 

E in quei tre giorni morirono per il freddo improvviso non solo gli agnellini della Vecchia e degli altri pastori, ma anche tutte le erbe e i germogli già spuntati nei prati stecchirono sotto la neve inaspettatamente caduta.

E ghiacciarono i petali dei fiori degli alberi da frutto; e il vento e la pioggia spazzarono via i piccoli nidi in costruzione e la Vecchia stessa, che imprudentemente aveva smesso gli abiti pesanti, si prese un accidente e defunse di polmonite.

Così Marzo, dopo tanta distruzione, poté finalmente andarsene soddisfatto e gli ultimi suoi 3 giorni furono chiamati, da allora, i Giorni della Vecchia.

Bernardo_Strozzi_Le_tre_Parche

Nel riminese invece si chiamano “I dé (giorni) d’la Canucéra”, dotati di un’ora misteriosa e da nessuno conosciuta in cui qualunque cosa si fosse fatta sarebbe andata a mal fine.

Per questo i contadini in quei giorni evitavano ogni attività nei campi, i pescatori di pescare, le partorienti (umane o animali) di partorire; difatti in Romagna, per definire qualcuno un po’ tonto, sfortunato o caratterialmente bizzarro, gli anziani ancora dicono “ ‘L’é nasù e dé (è nato nei giorni) d’la canucéra”.

Pare che il nome derivasse dalla conocchia (canucéra, appunto) simboleggiante le tre Parche, riferendosi precisamente ad Atropo, colei che di punto in bianco tagliava il filo dell’esistenze altrui.

E visto che da sempre i romagnoli consideravano marzo mese generalmente infausto per l’agricoltura, tentavano pure d’ingraziarselo con canzoni beneauguranti o con i “lom a mèrz“, i lumi di marzo, piccoli falò accesi sulle colline e nei campi in quelle tre notti, qualunque condizione atmosferica vi fosse, per indicare la retta via a Proserpina, dea della Primavera, che proprio in quei giorni usciva dalle tenebre dell’Ade per ritornare sulla Terra a fecondarla.

© Mitì Vigliero

Le Anime Pezzentelle al Cimitero delle Fontanelle, Napoli


(foto ©Cozla)

Il sottosuolo di Napoli ha più buchi d’una forma di groviera; gallerie e cunicoli scavati nel tufo che servivano come depositi, serbatoi d’acqua, scolatoi di lava, passaggi di sicurezza e cimiteri diciamo “d’emergenza”.

Sino a quando l’editto napoleonico di Saint-Cloud (1804) non intervenne per mettere ordine nelle sepolture, proibendole all’interno delle città e nei luoghi pubblici,  a Napoli ogni cittadino di buona condizione voleva essere seppellito in chiesa; questo portava ad un sovraffollamento non propriamente igienico , creando in certi casi situazioni intollerabili come avvenne ad esempio per la peste del 1636 (250.000 vittime) e per il colera del 1836.

I “salmàri” in molti casi facevano finta di tumulare i corpi in chiesa, ma appena calavano le tenebre quatti quatti li scaraventavano in uno dei tanti sotterranei, con buona pace delle anime loro.


(foto ©Cozla)

Proprio durante la peste iniziò a svilupparsi un fortissimo culto nei confronti delle Anime del Purgatorio: tante morti improvvise di sicuro avevano intasato il Luogo d’Attesa e poi quelle anime erano simpatiche, ancora terrene, soprattutto bisognose di preghiere per ottenere la salvezza e quindi disposte a fare in cambio piccoli favori, come esaudire desideri, dispensare guarigioni, elargire ricchezze tramite vincite al gioco.

Così negli ipogei zeppi di ossa abbandonate e senza nome della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio in via dei Tribunali 39- conosciuta come la “Chiesa d’e ccape ‘e morte”, teste di morto – e del Cimitero delle Fontanelle (tutto intorno via dei Tribunali, la strada dove Eduardo De Filippo non per nulla ambientò “Questi fantasmi”) fra le donne partenopee fiorì l’usanza di adottare un’anima pezzentella, ossia senza parenti legali, scegliendone con cura la “capuzzèlla” (il teschio), spolverandola, mettendola al riparo in uno “scaravàttuolo” (una tombìna), coccolandola col “refrìsco” (un rito antico e complicato fatto di preghiere e attenzioni, di cui vi parlerò un’altra volta) e dandole un nome.


(foto ©Cozla)


Roger Peyrefitte (in “Dal Vesuvio all’Etna”, 1954) così descriveva una sua visita a Fontanelle:

“La scelta di un teschio non si fa alla leggera. La gente cammina lentamente da una parte all’altra delle gallerie, scruta quei tristi avanzi di morti; ad un tratto si ferma, si china per prendere un teschio, l’esamina da tutte le parti, lo gira e lo rigira, lo palpa, lo soppesa e l’annusa. Segue subito dopo la ripulitura. Ho visto alcune giovani donne procedervi con un’arte casalinga: spazzolatura, pulitura con alcol, lucidatura con cera da mobili”.

La Pezzentella diventava parte della famiglia; visitata almeno una volta la settimana, a lei ci si confidava e si chiedevano grazie tramite bigliettini lasciati nella capuzzella.

Ad esempio, eccone uno che sperava in una vincita al Lotto: Anima bella venitemi in sogno e fatemi sapere come vi chiamate. Fatemi la grazia di farmi uscire la mia serie della cartella Nazionale. Anima bella fatemi questa grazia, a buon rendere…

(foto ©Cozla)


Se
però le grazie non arrivavano, l’adottante le teneva il muso iniziando a maneggiarla bruscamente, evitando di spolverarla, ignorandola ostentatamente sino ad arrivare, in casi estremi, a ripudiarla con ignominia, sostituendola con un’altra.

Nel 1969 questo genere di culto in odor di superstizione fu proibito dalla Chiesa, ma con scarsi risultati.

Ci volle il terremoto del 1980 a rendere inagibili per lungo tempo gli ipogei, frenando obbligatoriamente l’usanza: ma mai abolendola del tutto.

Oggi il Cimitero delle Fontanelle, dopo lunghissimi lavori di ristruttrazione e consolidamento delle strutture e grazie anche a una pacifica manifestazione con tanto di occupazione del luogo che gli abitanti di Rione Sanità hanno fatto il 23 maggio scorso, è finalmente di nuovo aperto a pubblico: e le Pezzentelle si sentiranno meno sole.

©Mitì Vigliero

(Il set completo delle fotografie di Cozla, che ringrazio per avermele imprestate, è qui.)