Era la fine del Quattrocento.
Un frate francescano, trovandosi a Gerusalemme nell’Orto dei Getsemani, raccolse un pezzo di legno d’ulivo e – colto da improvvisa ispirazione – ne intagliò la figura a grandezza naturale di un neonato: voleva raffigurare il Bambin Gesù, ma quando fu il momento di dipingergli il volto si rese conto che non sarebbe stato in grado di farcela da solo e così, prima di addormentarsi, pregò di essere aiutato dai Numi Celesti.
Svegliandosi la mattina dopo vide il bambinello non solo completamente dipinto (dagli Angeli, ovviamente), ma anche stretto in fasce come ogni neonato che si rispetti; solo che quelle erano di finissimo tessuto dorato.
Nel ‘500 lo portò con sé nel viaggio per mare che avrebbe dovuto condurlo a Roma, ma una tempesta fece affondare la nave; il Bambinello però riuscì prodigiosamente a raggiungere una spiaggia del Tirreno e da lì la chiesa dell’Ara Coeli, dove divenne immediatamente amatissimo oggetto di culto popolare.
Ridonava la salute ai malati, quell’infante di legno che i romani chiamarono da subito “er Pupo dell’Aracèli”; si diceva che, portato al cospetto d’un moribondo, le sue piccole labbra si colorassero di rosso vivo in caso di guarigione o impallidissero sino a diventar bianche se non c’era nulla da fare. Ma il più delle volte, dicevano, guariva.
Il Principe di Torlonia gli mise a disposizione una lussuosa carrozza che a gran velocità, a qualunque ora del giorno e della notte, attraversava le strade romane accompagnando il Bambino al domicilio dei malati più gravi.
Una di questi, giovane e ricca straniera, lo volle sempre con sé: fece fare una copia perfetta della statuetta e quando i frati tornarono a riprendere il Pupo, gliela consegnò.
Questi non si accorsero dello scambio, ma la stessa notte il portone della chiesa venne percosso da un bussare violentissimo; corsi ad aprire, i frati si trovarono di fronte un neonato piangente: il loro Bambino, quello autentico, che era tornato a casa da solo.
Col passare del tempo le sue fasce si coprirono di gioielli e pietre preziose, tutti ex voto.
Questo ovviamente ispirava pensieri ben poco santi tanto che i diaristi della chiesa dovettero più volte annotare tentativi di furto andati a vuoto o altri riusciti, come quelli del Natale del 1738 quando il Bambino, porto ai fedeli perché potessero baciarlo, tornò fra le mani del Celebrante quasi spoglio dei preziosi, staccati a morsi da baci troppo entusiasti.
Continuando i miracoli, aumentò la fama del Pupo; iniziarono ad arrivare lettere da ogni nazione, scritte soprattutto da piccoli malati che imploravano una grazia. Divenne ovunque simbolo di serenità: un culto affettuoso, ingenuo e dominato dalla tenerezza, che andava e va al di là del senso religioso.
Quel Bimbo è soprattutto un bambino, l’Indifeso che difende i più deboli: chi infatti è più debole di un malato?
Tutto questo sino al febbraio del 1994, quando qualcuno decise di rubarlo.
La notizia del “rapimento” finì sulle pagine dei giornali e nei notiziari di tutto mondo. Persino la Criminalità Organizzata si mise in moto, per tentare di ritrovarlo: ma inutilmente.
Sono passati 17 anni e di lui non si hanno ancora notizie; quello che vediamo oggi è una copia.
Però le preghiere non smettono, nemmeno la fede.
Forse rimane la speranza che er Pupo dell’Ara Coeli ritorni come secoli prima da solo, bussando un’altra volta fortissimo a quel portone, in un nuovo miracolo.