Vi racconto la storia di Maddalena Fieschi, la Monaca di Monza genovese

MonacaDi certo ricorderete la storia della manzoniana Gertrude, infelice creatura mirabilmente descritta nei Promessi Sposi, nipote d’un signore feroce, costretta sin dall’infanzia a subire un destino non voluto e che, causa un amore proibito, si macchiò d’infamia e delitti.

Però forse non sapete che anche a Genova vi fu una monaca la cui storia, anche se assai meno sanguinaria ma più… ligure, narrata da Michele Rosi ne Le monache nella vita genovese dal secolo XV al XVII, 1895, può rammentare la sua.

Lei si chiamava Maddalena Fieschi; probabilmente era imparentata con la celebre famiglia e come figlia cadetta subì, come la Gertrude, il destino obbligato del convento.

Nel 1662 entrò in quello delle Donne Osservanti della Parrocchia di Sant’Andrea.

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Il territorio gestito dalla parrocchia era allora di certo molto simile a quello che descriveva il Giustiniani più o meno cent’anni prima: “Comprendeva la porta antica della città, molto magnifica, la fronte dell’acquedotto, un macello, gli orti ed il convento“; 15 strade e 396 case. Non era perciò un territorio piccino, in cui fosse muoversi fosse rischioso perché immediatamente visti e riconosciuti.

L’Egidio della storia genovese si chiamava Giovanni Maria Grandi; lavorava nel setificio del fratello della moglie, Carletto Viganego.
Com’è come non è, il Giovanni ebbe modo di conoscere il convento e Maddalena proprio grazie al suo lavoro; come setificio lo rifornivano infatti di seta, specializzato nei ricami di paramenti sacri.

Anche lui, come l’Egidio, ebbe una complice della relazione; non una novizia dal tragico destino, ma due sue operaie; Paola Maria De Martini, tessitrice, e Luisa Besaccia, incannatrice. La prima abitava vicinissima al convento; dalle sue finestre, grazie a regalìe, il Grandi aveva la possibilità di conversare da lontano con suor Maddalena.

telaio seta

La relazione verbale durò sette anni; guai se Giovanni non si presentava all’ora stabilita, Maddalena non accettava ritardi, scuse dovute a impegni di lavoro, salute o condizioni atmosferiche pessime che avrebbero impedito a chiunque di starsene a conversare romanticamente affacciato a una finestra.
Folle di passione repressa e gelosia, fregandosene della sua posizione e delle eventuali conseguenze, arrivò al punto di incaricare la Paola Maria De Martini di far sapere al suo capo che “se fosse andato ad altri monasteri, se bene (lei) era (fosse) chiusa (nel convento), le (gli) avrebbe fatto dare delle schiene per terra prima che passassero ventriquattr’ore“.

Giovanni Grandi, colpito dalla violenta passione dell’amata e soprattutto probabilmente un po’ stanco anche lui di quell’amore espresso a distanza soltanto a parole, iniziò una tattica di avvicinamento.
Per prima cosa riuscì, con la scusa della seta, a incontrarla nel parlatorio. Ma anche lì la situazione era abbastanza frustrante; dialogare con la donna amata stando seduti di fronte su panche distanti numerosi metri e con la presenza di altre monache, misurando ogni parola per non far sorgere sospetti, era faticosissimo e stressante.

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Così convinse un’altra sua operaia, Luisa Besaccia, a trasferirsi dalla sua casa in San Nicola ad un’altra in Sant’Andrea, combinazione appiccicata al convento; nel “contratto” si diceva che l’appartamento sarebbe stato tutto della Luisa – la quale non avrebbe mai, vita natural durante, pagato un soldo d’affitto – tranne una finestra che sarebbe stata a completa disposizione di Giovanni. Finestra da cui lui agilmente avrebbe potuto saltare nella terrazza del colombaio del convento, ove Maddalena si recava spesso a dar da mangiare ai suoi amati pennuti.

A sua volta suor Maddalena convinse una sua consorella, Maria Gregoria De Franchi, che aveva la stanza a fianco della colombaia, sempre per amore dei pennuti, a lasciarla passare liberamente da camera sua alla terrazza e di far la guardia; in tal modo i due colombi umani, anfrattati nella piccionaia, avrebbero potuto tubare in estrema libertà.

colombi

Ma suor Gregoria si stancò presto di far da palo e un brutto giorno i due vennero beccati in flagrante dalla severissima superiora del convento, tal suor Maria Teresa, la quale fece una scena tremenda minacciando di denunciare (discoperto in giustitia) il Giovanni; e la condanna allora, per quel tipo di “delitto”, era la morte.

Trovarono un accordo; la superiora sarebbe stata zitta perché “non era scorrucciata, ma voleva richiederle (chiedergli) un servizio, che le imprestasse 100 lire che ne voleva pagare un mezzaro“.

mezzaro

Ebbe le 100 lire e, nonostante il ricatto, le cronache dell’Archivio di Stato non riportano alcuna sua punizione.

Invece Giovanni Grandi, in seguito ad un’anonima denuncia, il 19 luglio del 1669 fu condannato dal Doge ad essere esiliato per cinque anni sull’isola di Capraia e a una multa “per la somma di scuti quattromila d’oro“.

Di che fine fece Maddalena nulla si sa; ma da allora le finestre del Convento di Sant’Andrea vennero dotate di enormi inferriate e persiane fisse di pesantissimo legno.

 © Mitì Vigliero

Pillole di “Stupidario della Maturità”: I Promessi Sposi

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VOLGARI MINACCE
Fra Cristoforo alzò il dito e don Rodrigo capì subito.

DESTINO
Se Renzo non fosse stato bravo, sarebbe diventato un Bravo

L’INTRUSO
Don Rodrigo, svegliatosi dopo una notte di incubi, trovò nel suo letto un sozzo bubbone livido e paonazzo.

VU’ CUMPRA’?
Fra Galdino bussava di porta in porta per vendere noci.

IL MANIACO FLUVIALE I
Renzo Tramaglino attraversò l’Adige
Renzo arrivò al Ticino
Finalmente giunse al Po

IL MANIACO FLUVIALE II
Domanda: “Chi fece attraversare l’Adda a Renzo?”
Risposta: “Caronte”

DOPO, NO
Fra Cristoforo, prima di diventare prete, era figlio di un mercante

DEVOTA PREGHIERA
Lucia, la notte dell’Innominato, stette sveglia imprecando la Madonna di salvarla

GEOGRAFICAMENTE PARLANDO
Pescarenico è un paesino vicino a Recco

promessi sposi

SOSPETTO
E chi ci dice che Lucia non avesse fatto la scema con don Rodrigo?

SCANDALO
Perpetua era la convivente di don Abbondio

CAVOLI A MERENDA
I commensali stavano parlando della carestia e a questo proposito Attilio disse che lui avrebbe picchiato un ambasciatore che gli avesse portato una cattiva notiza.

LE PORTE DEL ‘600
Renzo entrò a Milano attraverso Porta Garibaldi

PERCORSO ACCIDENTATO
Renzo, prima di ritrovare Lucia, dovrà superare molte traversine

IN CARROZZA!
Lucia raggiunse Monza in treno

L’EVOLUTA
Allora Gertrude telefonò ad Egidio

LATINUS GROSSUS
Fra Cristoforo, rispondendo a fra Fazio che gli contestava le donne in convento, disse “omnia munda mundis”, ossia “ogni mondo è mondo” e così fra Fazio rimase senza parole

VOLEVA FARE GOAL
Però il matrimonio a sorpresa va a monte grazie all’intervento di don Abbondio su Lucia

IPSE DIXIT
Gertrude, in sintesi, è una poco di buono

MUTAZIONI GENETICHE
In origine, fra Cristoforo era un uomo normalissimo

QUESTIONE DI ORMONI
Perpetua era una donna che, a confronto di don Abbondio, era tutto il contrario

LA SERAFICA
La Lucia manzoniana è il simbolo della fede; crede ciecamente nella Provvidenza e non va mai fuori dalla grazia di Dio

OVVIO
L’avvocato Azzeccagarbugli si chiamava così perché faceva solo garbugli, ossia incasinava le cose.

LA PRUDENTE
Perpetua a me non è che mi sia molto simpatica, ma anche perché non la conosco e quindi una persona per giudicarla bisogna conoscerla bene.

© Mitì Vigliero, da Lo Stupidario della Maturità, Rizzoli, 1991.

Altre Pillole di Stupidario:

– Il Detestabile Ugo; L’Infelice Giacomo; Il Povero Giovannino; Il Tenero Guido; L’Infernale Alighieri

Gabriele il Macho

L’Abominevole Alessandro

Giovanni il Pizzoso, Italo l’Inetto, Luigi il Matto

Ara, bell’Ara: la Maledizione di Palazzo Marino


(foto Wikimedia ©Giovanni Dall’Orto)

Era il 1546 quando il Conte Tommaso Marino decise di trasferirsi da Genova a Milano; aveva 71 anni, un discreto patrimonio ottenuto con i suoi affari da “banchiere”, un carattere infernale e un notevole pelo sullo stomaco. 

In pochi anni divenne ricchissimo riuscendo ad aggiudicarsi il Monopolio del Sale proveniente da Venezia e destinato a Genova e Milano; prestando soldi con interessi da strozzino ai Gonzaga, alla Spagna, alla Tesoreria dello Stato di Milano, alla Francia e pure al Papa ottenendo in cambio, oltre titoli e privilegi, anche terreni e palazzi sparsi per tutto lo Stivale.

I suoi affari non erano quasi mai puliti; aveva un esercito di “bravi”, veri pendagli da forca che gli sistemavano i conti in sospeso con avversari e clienti insolventi, oltre scorrazzarlo in giro per Milano con una portantina tutta d’oro.

A 78 anni s’invaghì di Arabella Cornaro, giovanissima e splendida figlia di un patrizio veneziano e discendente diretta della Regina di Cipro; la vide un giorno vicino alla chiesa di San Fedele, e decise che sarebbe diventata sua ad ogni costo.

Ne chiese la mano al padre il quale, conoscendo il tipetto, rifiutò seccamente non trovando però di meglio come giustificazione che dire: “Non darò mai mia figlia in moglie a chi non possa farla vivere in un palazzo sontuoso come i nostri a Venezia”.

Detto fatto, il Marino fece rapire dai suoi bravi la bella Ara e ne ottenne la mano promettendo in cambio la costruzione di un palazzo da favola.

Contattò l’architetto Alessi, che ne disegnò il progetto.

Acquistò con le buone e le cattive tutte le case che si trovavano sul lato sinistro di San Fedele, ne cacciò gli abitanti, le rase al suolo e nel 1558 pose la prima pietra di Palazzo Marino.

Risale proprio ad allora una nota conta infantile milanese:

Ara, bell’Ara, discesa Cornara
de l’or del fin
del Cont Marin
strapazza bardocch
drent e foeura trii pittoch
trii pessitt e ona massoeura,
quest l’è drent e quest l’è foeura

Questa, in mezzo parole intraducibili, ricorda il Conte e i suoi bravi che menavano i poveretti con armi decorate dallo stemma del Conte Marino, composto da una mazza  (massoeura) e tre pessit (tre pesciolini).

Insomma, milanesi giunsero ad odiarlo e su Palazzo Marino venne lanciata una maledizione:

Congeries lapidum
multis constructa rapinis
aut uret, aut ruet, aut alter raptor rapiet.
(Accozzaglia di pietre, costruita grazie a molte ruberie, o brucerà, o crollerà, o sarà rubata da qualche altro ladro).

La maledizione funzionò, ed i guai arrivarono a frotte; il Marino morì il 9 maggio 1572,  a 97 anni, in assoluta solitudine e pieno di debiti causati proprio dalla megalomane costruzione.

Poco prima la bella Ara era stata trovata impiccata al baldacchino del suo letto nella residenza di campagna; infine, tanto per rallegrare la discendenza, nel 1575 la figlia di Tommaso, Virginia, sposata al nobile spagnolo Martino de Leyla,  a Palazzo Marino diede alla luce Marianna: la futura Monaca di Monza.

Il palazzo cadde nelle mani degli Spagnoli prima e degli Austriaci poi; nel 1943 venne gravemente danneggiato dai bombardamenti e nel 1961 divenne Sede del Comune di Milano: honni soit qui mal y pense, eh?

© Mitì Vigliero