5 luglio 1957

Mia madre ricordava quella del 1957 come l’estate più calda della sua vita. Certo, luglio a Torino non è mai particolarmente temperato, ma immagino che fosse un clima davvero insopportabile per una ragazza genovese di vent’anni abituata alla brezza marina. E poi in clinica, ai miei tempi, mica c’era l’aria condizionata.

E questo forse spiega perché io detesti il caldo.

Mia madre ricordava anche che non nascevo mai. Non ne avevo nessuna intenzione; probabilmente perché lei continuava a dire che faceva caldo, un caldo terribile, un caldo tremendo. Io là dentro stavo benissimo, fosse stato per me avrei potuto nascere in settembre, quando il Valentino diventa tutto rosso e oro.
Allora, visto che non nascevo mai,  mia madre ricordava che papà (25enne) la caricava in macchina e percorrevano strade sconnesse, rotaie del tram comprese, sperando che gli scrolloni servissero a darmi una mossa.

E questo forse spiega sia la mia pigrizia cronica, sia il fatto che non abbia mai voluto prendere la patente in vita mia.

Mia madre ricordava pure che ronfavo tutto il giorno, mentre di notte ero sveglia come un grillo e protestavo assai se loro dormivano tanto che – una volta appurato che stavo bene, non avevo fame, non dovevo essere cambiata – arrivavano a barricarsi in camera lasciandomi strillare da sola a 7 porte chiuse di distanza. Poi, appena sentivano il silenzio, pensando “Sarà viva?” correvano a vedermi. E mi svegliavano. E io mi seccavo. Molto.

E questo forse spiega sia perché io detesti alzarmi presto la mattina, cominci a ragionare solo da mezzogiorno in poi e vada a dormire sempre a ore da nottabuli sia che, se vengo svegliata di soprassalto, possa avere reazioni considerate dallo svegliatore un cicinìn poco amichevoli.

Riguardo all’alimentazione, mia madre ricordava che erano ammattiti a tentare di svezzarmi. Latte materno ok, ma dopo 5 mesi ne avevo avuto a sufficienza e avrei gradito – senz’offesa alla produttrice – qualcos’altro di un po’ più sfizioso. Il semolino veniva sputato a metri di distanza, così come la farina lattea. La crema di riso mi provocava crisi di panico solo a vederla nella scatola, i plasmon nel latte mi offendevano profondamente. Una sera i miei, presi dalla disperazione, pescarono una spessa mestolata del loro minestrone, lo schiacciarono ben bene e me ne diedero una cucchiata.  Da lì, fu tutta discesa.

E questo forse spiega la mia passione per la gastronomia.

Mia madre ricordava ovviamente un sacco di altre cose dalla mia nascita in poi; cose che vi risparmio, ma che possono forse spiegare il perché io sia diventata così come sono oggi.

Una Placida Signora tutto sommato soddisfatta di se stessa, ricca di ricordi ed esperienze tutte importanti, abbastanza saggia, moderatamente malinconica ma innatamente umorista che, ogni 5 luglio ringrazia il Cielo per tutti i meravigliosi doni che la Vita le ha dato.

Fra questi, voi, Amici Tesorimiei.

E a voi brindo, augurandovi un mare di Serenità e ringraziandovi per tutto il tempo passato insieme.

Vi abbraccia uno a una la vostra

Mitì

Il Coniglio alla Papà Pippo

Questa ricetta finirà stampata su un foglio che poi, dopo averlo piegato in quattro, infilerò fra le pagine del vecchio libro di Mamma per continuare la tradizione.

Quando la settimana scorsa sono andata in campagna, son tornata carica di burro, formaggi, un bel coniglio già lavato e pulito ed in testa la ricetta per cucinarlo insegnatami da Papà.

1 coniglio
1 bottiglia di vino bianco buono
tanto tanto tanto rosmarino
3 cucchiaini di sale
2 spicchi d’aglio
olio

Tagliare il coniglio a pezzi.
Staccare una gran quantità di foglie di rosmarino (prendendo il rametto sulla cima e, stringendo le dita, passarle alla base delle foglie in senso contrario all’attaccatura, andando verso il basso) e tritarle finissime, quasi in polvere (io ho usato un coso tipo questo): il quantitativo dovrebbe essere quello di una tazza .
In una padella grande, larga e abbastanza alta di bordi, mettere a scaldare un poco d’olio, i due spicchi d’aglio interi e i pezzi di coniglio: far rosolare e colorare molto bene a fuoco vivo.
Togliere l’aglio, unire la polvere di rosmarino, far rosolare ancora un poco mescolando e facendo in modo che il rosmarino si distribuisca bene sui pezzi di carne.
Unire il sale.
Versare sul coniglio tutta la bottiglia di vino bianco (io ho usato del Pigato: quello avevo…).
Mescolare, abbassare il fuoco, mettere un coperchio e cuocere piano piano sino alla quasi completa evaporazione del vino; dovranno rimanere due/tre dita di sughetto scuro e profumatissimo.

L’ho cucinato sabato a cena, servendolo con un po’ di polenta come contorno; Fabio, Gaia ed Enrico hanno molto apprezzato :-).

Spero anche voi!