Il Foresto e la Nunziata: Storie di Genova

A vederla così, col chiaro e sobrio pronao neoclassico affacciato sulla piazza, tu forestiero – o foresto, come dicon qui – penserai subito “ma come è austera quella chiesa lì”; e immaginerai all’interno file di colonne candide, bianche pareti, monocolore e semplicità francescana.

Invece la Nunziata è lo specchio della nobiltà e dell’antica borghesia genovese, quella vera; al di fuori sobria, un po’ grigia, che non gira in Ferrari ma in Vespa, indossa abiti classici (che bello il fumo di Londra) parla sottovoce, non ama esibire. Una volta penetrato però all’interno del suo cuore, troverai sorprendenti doti; estetica, umorismo, passionalità, genio.

Sono infatti i genovesi del tutto uguali alle loro case, che se antiche hanno facciate un po’ malconce e fanno immaginare stanzoni bui e polverosi, se moderne son d’aspetto un po’ banale: ma se entri nelle une e nelle altre spesso ti assalgono arredi e specchi e stucchi e quadri che tolgono il fiato.

Ma non lo dire a nessuno.

Limitati quindi ad entrare nella chiesa della Nunziata – che in realtà si chiama Santissima Annunziata del Vastato, ma qui siam parchi pure nelle sillabe – e stupisci.

Dickens nel 1843 scriveva: “E’ difficile esagerare, parlando dello splendore e della varietà delle chiese genovesi. C’è specialmente la chiesa dell’Annunziata la quale, dalla porta esterna fino alla sommità dell’alta cupola, è così finemente dipinta e dorata da sembrare una grande tabacchiera smaltata”.

Mark Twain, vent’anni dopo, commentava: “Potrei dire che la chiesa dell’Annunziata è una foresta di bellissime colonne, di statue, di dorature, di dipinti quasi senza numero, ma non darei un’idea esatta della cosa, e a che servirebbe? Fu costruita interamente da un’antica famiglia, che vi esaurì il suo denaro. Ecco dov’è il mistero. Avevamo idea che solo una zecca sarebbe sopravvissuta alla spesa”.

E’ vero.

I Lomellini, potente famiglia di commercianti, politici e ecclesiastici, avevano deciso di stabilire proprio in quella zona detta Vastatum (da guastatum, per i continui lavori di sbancamento e costruzioni) il loro “albergo”, con le case di tutto il parentado: nel 1591 acquistarono il giuspatronato della chiesa, facendone in pratica la “cappella” di famiglia e investendoci per almeno due secoli immensi capitali frutto di vendite di corallo, eredità, bottini di guerra, lasciti, doti di mogli… Perché non sperperano mai, i genovesi; se soldi devono uscire, è bene che rientrino sotto forma di beni preziosi, mobili o immobili che siano.

Se tu forestiero vuoi studiare la pittura genovese, basta che t’inoltri nella chiesa passando un paio d’ore a naso in su; nel corso degli anni le diciotto cappelle, il coro, il presbiterio furono decorati da ben quarantuno celebri artisti come i fratelli Carlone, come il Fiasella, l’Assereto, il Piola, lo Strozzi, il De Ferrari, il Benso, il Procaccini. E come il Cambiaso, il Semino, il Guercino e come il Borzone, poveretto, che nel 1645 – mentre affrescava il Presepe sul soffitto della cappella dedicata alla Madonna degli Angeli- piombò dall’impalcatura e ci restò secco; o come l’Ansaldo, dal carattere infernale e litigioso che lì scampò al pugnale di un sicario solo perché la Santissima Nunziata vigilava…

(*)

E dopo aver fatto il pieno di cultura artistica, prova a sostare sotto il pronao progettato dal Barabino nel 1833 ma costruito dal Redasco (che come direttore dei lavori costava meno…); isolandoti dal rumore del traffico, ascolterai la voce della Nunziata che ti racconterà ciò che in questi secoli ha visto e vissuto.

Le sue campane batterono lugubri rintocchi quando, nel 1601, sulla piazza fu impiccato il medico traditor di patria Giovanni Giorgio Leveratto il quale, per ottusa ambizione, aveva deciso di farsi bello con Enrico IV di Francia promettendogli l’invasione di Genova progettando, il folle, di far entrare le truppe da una piccola porta in Carignano.
E di nuovo suonarono meste nel 1655, al passaggio di decine di migliaia di morti appestati trascinati sui carri per essere sepolti nei tracciati delle fondamenta di quello che diventerà l’Albergo dei Poveri.

Trentatré anni dopo, diretti nella stessa direzione, la chiesa lomellina vide passare in solenne processione le ceneri del Battista, il tesoro di San Lorenzo, i beni del Monte di Pietà portati sempre all’Albergo per sicurezza mentre il Re Sole illuminava Genova bombardandola per quattro interminabili giorni di maggio con la sua flotta di centosessanta vele schierate dal capo della Lanterna alla foce del Bisagno. “Cadevano le bombe nell’orror della notte come comete infocate dal cielo irato”; più d’una colpì anche le sacre mura, e fu la prima di una lunga serie di catastrofiche sberle che la Nunziata dovette subire in nome della guerra .


(*)

Chiedile, forestiero, a proposito di bombe su Genova, cosa ricorda delle notti del 22 ottobre e del 7 novembre del 1942, o di quella tremenda del 29 ottobre ’43…Da brava cristiana che dimentica i torti cambierà discorso e inizierà invece a raccontarti quando, dal suo grande portale, entrò il feretro del duca Giuseppe di Bouffler.

Correva l’anno 1746; Genova aveva cacciato gli austriaci con la rivolta di Portoria (il Balilla, chi l’inse, quella storia lì) e i francesi tornati amici, per difenderla colla loro presenza, avevano spedito truppe comandate proprio dal Bouffles, che ben presto però morì di vaiolo . La vox populi (alias Amedeo Pescio) lo definì “il Duca presente-cadavere”; il Senato, più gentile, concesse che i suoi discendenti fossero iscritti nel Libro d’Oro della nobiltà Superba. Perciò il duca, ormai più che cadavere, riposa alla Nunziata, nella navata destra, davanti alla cappella dedicata a San Luigi. Di Francia.

Se starai ad ascoltarla, la Nunziata ti sussurrerà ancora come il 14 luglio 1797 assistette scandalizzata alla Marcia Repubblicana con tanto di carri allegorici, corteo di figuranti simboleggianti schiavi, popolani, nobili, cittadini preti, mestieri e la giovane Bianca Calvi, che rappresentava La Libertà vestita proprio come la voleva l’iconografia dell’epoca; causa tale pubblica esibizione di forme la tapina, per trovare uno straccio di marito, alla faccia dell’egalité dei sessi dovette mendicare una misera dote al Governo: e fu l’allegoria più riuscita di quanto la libertà costi spesso reputazioni e sacrifici.

A questo proposito ti descriverà anche cosa accadeva nell’800 sulla sua piazza, sino ai primi del ‘900 sede di un grande e vivacissimo mercato ortofrutticolo; i francesi comandati dal generale Massena, sempre per difendere la città e non per nulla Massena fu nomato affettuosamente Massazéna, Ammazzagenova, si erano asserragliati all’interno delle mura stritolate da inglesi sul mare e austriaci sulle alture. I genovesi in quel mercato non trovarono presto più nulla e, morti di fame, sostituirono melanzane, funghi, pesche, basilico e zucchine con gatti, topi, cani e pipistrelli.

Ma nel 1815 giungeva consolatorio dal mare Pio VII a portare la speranza nel cuore della Superba; furono giorni di gaudio, luminarie, urrà. E nell’Annunziata il Santo Padre parlò di pace e libertà: che poi lo facesse per ratificare la vendita di Genova al Regno Sardo Piemontese, in virtù del Congresso di Vienna e senza colpo ferire, questa è un’altra storia simile a tutte le altre d’invasori e difensori che qui si avvicendarono ancora per anni e che la bella chiesa potrebbe narrarti tramite me se solo avesse più spazio in queste pagine…

Quindi tu, forestiero, vai alla Nunziata e continua ad ascoltarne la voce cullata dallo scirocco; e dopo aver sentito, darai torto ad Alphonse Karr quando scriveva “l’Annunziata ha l’interno tutto dorato, tutto letteralmente, e i giorni di festa le colonne di marmo sono rivestite di damasco o velluto cremisi a frange d’oro. Ma tutte queste magnificenze non hanno niente di religioso. Sembra che gli italiani non abbiano niente da chiedere a Dio. Del resto, è agli amanti infelici che bisogna chiedere che cosa è l’amore, all’inverno che cosa è la rosa. Gli abitanti di Genova hanno sempre sole e rose; perché dovrebbero pregare?”

© Mitì Vigliero

La strana storia di Ginevra degli Armieri la quale, essendo stata giudicata morta, poté sposare chi voleva.

Firenze, in un palazzo di via de’ Calzaiuoli d’angolo con via delle Oche, verso la fine del 1300 abitavano Francesco Agolanti e sua moglie, Ginevra degli Armieri (o Amieri).

Aveva 18 anni la bellissima Ginevra, e da sempre era innamorata – ricambiata – di Antonio Rondinelli; ma suo padre Bernardo, come s’usava allora, l’aveva destinata sin da bambina al più potente e ricco Agolanti.

Pochi mesi dopo il matrimonio scoppiò una terribile epidemia di peste.
Anche Ginevra si ammalò, ma non di peste bensì di qualche strana febbre violentissima che la fece cadere in una sorta di coma profondo.

I parenti, pensando fosse morta a causa dell’orribile nonché contagiosissimo morbo, la seppellirono in fretta e furia nella cappella di famiglia nel cimitero del Duomo.

Dopo qualche ora Ginevra si svegliò; immaginate il suo terrore nello scoprirsi sepolta viva
Ma fu proprio il terrore a darle la forza disperata di sollevare la pietra del sepolcro e di fuggire nelle strade immerse nella notte fiorentina.

Era ottobre, gelida la notte rischiarata soltanto dalla Luna piena.

Ginevra, vestita soltanto di un candido e sottile sudario, percorse nel buio una stradina stretta stretta, che dall’Arciconfraternita arriva in via delle Oche – e proprio per quel fatto la stradina si chiamò a lungo via della Morta o della Morte, mentre oggi si chiama Via Campanile .

Arrivò alla casa del marito bussando fortemente al portone ma Francesco, affacciandosi e vedendola, pensando a un fantasma si spaventò cacciandola via dicendo : “Vattene anima inquieta! Ti prometto delle messe in suffragio, ma scompari per sempre!”

Allora Ginevra andò alla casa del padre ma pure lì venne cacciata dai genitori terrorizzati; si quindi trascinò alla casa dei parenti della madre, ma questi addirittura fecero gli scongiuri barricando porte e finestre.

Stravolta, in preda alla febbre, esausta, Ginevra riuscì infine ad arrivare alla casa di Antonio Rondinelli e il giovane – senza porsi il minimo problema – corse immediatamente per strada, la prese tra le braccia accorgendosi che non era per nulla uno spettro e la condusse all’interno del suo palazzo.

Dopo aver spedito immediatamente un fidato servo a richiudere la pietra tombale in Duomo si dedicò, con l’aiuto della madre e di un medico amico, alla cura della sua amata, che ben presto guarì.

Dopo sei mesi Ginevra ricomparve in pubblico, bellissima, sana e felice, nonché sposata col suo Antonio.

Subito il marito Agolanti reclamò i propri diritti, e così tutta la famiglia Armieri; il caso, che i parenti della donna denunciarono come abbandono del tetto coniugale e bigamia, finì di fronte al Tribunale Ecclesiastico.

Ma la sentenza della Corte, straordinariamente intelligente e illuminata per l’epoca, decretò che Ginevra, essendo stata considerata morta da tutti e da tutti poi cacciata via, era divenuta padrona assoluta di se stessa e quindi liberissima di vivere come le pareva e, soprattutto, di amare chi voleva.

© Mitì Vigliero

Perché si Dice “Salute!” a Chi Starnuta


Pare che l’uso di dire “Salute!” a chi starnuta abbia origine dal filosofo Aristotele il quale diceva che, in tal modo, si onorava il Cervello, sede del Buon Senso e dello Spirito: e lo starnuto era in qualche modo un suo “discorso”, il modo che aveva il Cervello per esprimersi.

Altri dicono che risalga all’epoca del Papa Gregorio Magno (VI sec. dC), quando scoppiò una tremenda pestilenza che si preannunciava con violenti starnuti: e quindi augurare salute era vitale.

Gli starnuti a digiuno sono premonitori, e bisogna contarli: uno significa “notizie buone”, duesorpresa in arrivo”, trecattive novità”: probabilmente un raffreddore.

©Mitì Vigliero