Parole&Promesse: Proverbi e Modi di Dire

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Un tempo venire considerati “Uomini di parola” era una questione d’orgoglio; “Mantener fede alla parola data” voleva dire mantenere reputazione, stima, onore e dignità, cose allora – anche se oggi sembra impossibile – considerate più importanti della vita stessa.

Però l’universale saggezza popolare vecchia di secoli e secoli, attesta che già nei tempi passati una cosa era promettere, un’altra mantenere.

Chi promette in debito si mette” insegnavano i saggi nonni ai nipotini, ben sapendo loro per primi che “Quel che si promette ai fanciulli e ai disperati bisogna averlo in mano“; infatti non v’è nulla di peggio che far capire presto agli infanti quanto poco ci si debba fidare degli adulti, o illudere chi già sta male per i fatti suoi con “False promesse“.

Eppure spesso, soprattutto nel momento del bisogno e della necessità, bisogna per forza “Prendere in parola” solo “Mezze parole” captate magari a fatica in mezzo ad un “Diluvio di parole” – gentili e fascinose o sbraitanti e volgarissime – ma che poi, all’atto pratico, si rivelano tutte solo miraggi di chimere, perché colui che aveva promesso anche pur vagamente, quasi sempre quella parola se la rimangia.

Siamo ben consci che Tra il promettere e l’ottenere si smarrisce il mantenere“; ma rimanere sospesi in situazioni incerte, solo “Tenuti in parola” da chi  ha fatto “Promesse da marinaio” può deprimere e innervosire.

Vi sono  persone davvero specialiste, soprattutto nei momenti di buia crisi o eccitato entusiasmo, a “Prometter mari e monti” (o “Vacche dalle corna d’oro“, come dicono gli olandesi); eppure bisognerebbe ormai aver capito che “Il mescere, non il promettere, riempie il bicchiere“ (Germania), che “Pane promesso non riempie lo stomaco“, “Legna promessa non accende la stufa“ (Russia), “Medicina promessa non cura“ (Cina), “Legge promessa crea delitti” (Francia) e “Ricchezza promessa porta miseria“ (Inghilterra).

Sarebbe importante invece seguire quel vecchio proverbio dal duplice significato che recita “Chi promette nel bosco, mantenga in città“; le promesse fatte in un momento “diverso” dal solito, lontano sia materialmente che metaforicamente dalla quotidianità, che sia un momento del pericolo collettivo o uno in cui ci si sente tutti particolarmente allegri, rilassati e bendisposti, devono essere sempre mantenute una volta tornati alla normalità.

A essere solleciti, accorti, generosi, rassicuranti “solo a parole” sono buoni tutti, ma non bisogna mai dimenticare che “Il promettere è la vigilia del dare“: crea aspettative e fiducia.

Ma “Promettere una capra e poi non dare un pelo della sua barba“, come dicono i greci, è non solo crudele, ma anche pericoloso per chi promette:  “Le promesse spesso rompon le ossa” (Portogallo) poiché “Promessa non mantenuta vale una battuta“ non di spirito, ma di randello.

Chi promette in fretta se ne pente con calma” e “Pazzo è colui che non potendo dare un pollo promette un bue“ (Spagna); eppure di “Promettitori” professionisti (citati anche dal Boccaccio nel Decamerone,VIII, 2) pare sia pieno il mondo; gente che pur di raggiungere i propri fini sarebbe disposta a promettere, secondo gli armeni, “Il latte delle galline e un giro in volo sulla groppa del mulo“.

Quindi ancor più pazzo è colui che ci crede, visto che ormai è noto a tutti che: “Il furbo promette e lo sciocco aspetta“.

© Mitì Vigliero

Dialetti Italiani: Le Parole Più Belle

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Oggi 17 gennaio 2013 è la “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali“.
Raccogliamo qui le parole del nostro dialetto che ci piacciono di più?
Quelle belle per il suono, quelle che “rendono l’idea” dei concetti, quelle che dovrebbero entrare nei vocabolari d’italiano?

Inizio con le genovesi rumenta (spazzatura), magun (tristezza-malinconia), brìgola (non pustola o brufolo, ma semplice ponfetto rosa, non esiste termine in italiano)

E ora le vostre, in progress (continuate pure a segnalare qui, su friendfees o twitter, mettendo per favore traduzione e luogo d’origine, e io pubblicherò):

Spәrәdәgghiàun (pipistrello) [Andria – Bt] “ә” è da pronunciare come “eau” francese –  Smeerch

Taparlin, che era un modo tenero di mia nonna di chiamare noi bimbi “trottolini”, più o meno – monicabionda

Mi limito a ricalcare in limba logodurese le parole che proponi tu (ne amo talmente tante!) e dunque: spazzatura > “àrga“, tristezza > “amargùra“, brufolino > “sanzoléddu” – bianca

Mannéil (asciugamano) [Barletta – Bt] – Smeerch

Illèghәnә (le lasagne) [Barletta – Bt] – Smeerch

Marantega (strega) [Venezia] – boltz

Stramasso (materasso) [Venezia] – boltz

Bleon (lenzuolo) [friulano] – 1la

Cәmmèun (fognature) [Andria – Bt] – Smeerch

Sparatràps (cerotti) [Andria – Bt] – Smeerch

Tiella (teglia) Roma; Pirula pentula (altalena)- Mentana, Roma; – scatola

Llingillàngiә (altalena) [Andria – Bt] – Smeerch

Ràan (sabbia) [Barletta – Bt] – Smeerch

Attigghiu (il solletico) (Palermo) – shannafra

Radàblo tecnicamente dovrebbe essere una specie di rastrello senza denti per il letame, ma si usa per definire persone “scomode da guardare” – [Pinzolo -TN] – corax

Napoletano: arrassusia (non sia mai), ‘nziria (desiderio inappagato, capriccio), crisommola (albicocca), zezzenella (letteralmente il latte al seno, figurativo la pacchia), ciore (fiore) – Cogitabondo

Caramadalia (camera d’aria della bicicletta, Oltrepò mantovano). – Alice Twain

Un “vohabolario fiorentino” intero…. – Stefano

Pincanello (biliardino/calcio balilla) (Brescia) – Snowdog

Spareciu, grandissimo divertimento, ma anche il fratello sguariare, svagarsi / divertirsi  (Lecce) – HoldMe

Ghëddu: intenzione particolare; “tocco in più”. Nella musica forse traducibile con l’inglese groove (piemontese di Torino e provincia) – Raffaella Carrera

Ciaparat: lett. acchiappa-topi, persona incapace. (piemontese di Torino e provincia) – Raffaella Carrera

Giacufumna: lett. Giacomo-donna, uomo effeminato. Definizione che ha sempre fatto ridere anche i miei amici gay. (piemontese di Torino provincia) – Raffaella Carrera

Lendenùn (profondo nord) = capellone, ossia pieno di lendini dei pidocchi – Elvetico

Muè (madre), ‘nemmu (andiamo), ancoe (oggi), depuidirnà (pomeriggio) e ce ne sono mille altre (Genova,) – zuck

Bagolar(se), infinito, riflessivo. Significa perder tempo, gingillarsi, girare a vuoto… dicono derivi dal fatto che dal bagolaro ricavassero bastoni da passeggio – Franka®

Pistapoci (che pesta le pozzanghere, si dice ai bambini), sghiriàt (scoiattolo), arcbaléstor (arcobaleno), arzintéla (lucertola), gurgnagh (radicchi) (Parmigiano) – Chiaracaffè

Cerchiolla (arcobaleno) sizzimurreddu (pipistrello) Sardo Campidanese – Rosalba

Merenda sinoira, come usanza anche, al posto dell’orrido “apericena” (cos’è? Ecco qui) – Nervo

Milano: bagulùn, buono a nulla. – Alice Twain

Ficozzo (bernoccolo) [Roma] – Smeerch

Sardo Logudorese: arcobaleno > “arcu ‘e chelu“, pipistrello > impeddhòne – bianca

Trà’tur (cassetto), zàmmammar (buono a nulla), uzòca (zitella acida), tràndan (elastico)…ribatto al pipistrello col mio sc’mpìccie :) (Basso Lazio quasi Abruzzo) – Violette

A me piace tanto s’ciantìso (scintilla) e poi trovo che scarpìa (ragnatela) abbia un che di poetico (Veneto) – chiaratiz™

Bisa scudlera (biscia con la scodella) è la tartaruga (Pc/Pr) – lanf3anc

A p’kkondrì che sarebbe la malinconia mischiata allo scazzo. (Rutigliano-Bari) – Domenico Renna

Schincapène. A VE è l’impiegatuccio travet di basso livello che non conta nulla. Da schincàr. Alberta

Anche “scravassòn” (acquazzone) in veneziano mi piace molto. Onomatopeico al massimo. Quando vivevo a TS era “slavazzòn“. Alberta

Carolao: vecchio, rugoso (Veneto-Gradese) – Enio Pasta

Ratavuloira = pipistrello (piemontese, dalle mie parti a Vercelli e dintorni si pronuncia anche “ratavulùra”), è evidente il francesismo rat=ratto. Meravigliosa l’immagine del topo volante! Parpaion = farfalla, sempre in piemontese, anche se sempre dalle mie parti si dice parpajola (che credo sia il sostantivo femminile) Cu-na = culla, con un curioso problema di pronuncia: tra la “u” e la “n” ci dovrebbe stare una “g” molto dura e “quasi” silenziosa, impossibile da spiegare per iscritto, tanto che è uno dei test tipici con cui ci scherzano i nostri vecchi per vedere se sappiamo pronunciare bene il dialetto :) – lollodj

Ràtto penûgo: pipistello (Liguria) – Zarquonit

Pedrìöl (imbuto) in dialetto cremasco – marca severgnini

A Parma l’imbuto è lorèttChiaracaffè

qui l’imbuto è “la piria” :) (o anche, più arcaico “l’impiria“) – Franka®

a Bergamo invece l’imbuto è pedriöl eliokir

Milano, pedriö. – Alice Twain

A Venezia forchetta e’ “piron” – boltz

Sgagliozz (rigorosamente salate) Bari – Haukr

Sempre a BG il grembiule con la pettorina: bigaröla eliokir

Bésula” che dovrebbe essere quel tremolio del mento di chi si sta per mettersi a piangere. Piemontese, forse solo torinese. Lo diceva sempre mia madre. E poi “masca” (strega) soprattutto nella locuzione “travaj dle masche“, che significa lavoraccio, compito difficile e lungo, ecc. Poi, bellissimo, “a s’ parlu“, si parlano, che traduce il più asettico “si frequentano”, detto di una coppia appena nata. – marcella

gurgnagh piacentini raccontati da Chiaracaffè, qui

Inturciuniato” attorcigliato, aggrovigliato (Sicilia). Si dice sia dei capelli ricci, sia di un pensiero contorto. coclicko

Fiammanghilla (piatto ovale di portata) mi piace tanto! (Liguria) – graziellamb

Smuginà (mescolare) vernacolo anconetano – availableinblue

Forse non lo sappiamo, ma parliamo tutti Arabo

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La lingua italiana è piena di parole decisamente arabe; parole semplici, comunissime, che usiamo quotidianamente.

Queste entrarono a far parte della nostra lingua  già in epoca antichissima quando gli Arabi, più o meno dal 650 al 1100 dC, furono padroni del Mediterraneo.

Conquistarono un immenso territorio che si estendeva come un enorme abbraccio dai confini dell’India, attraverso l’Africa settentrionale, fino ai Pirenei.
In Italia tennero a lungo la Sicilia, crearono capisaldi sulle coste Italiane dalla Puglia alla Liguria, entrarono in Piemonte, sino alle Alpi.

E si sa che tutti i conquistatori lasciano sul terreno non solo sangue e distruzioni, ma anche costumi, usanze e linguaggi.

Però furono soprattutto i commerci che l’Italia tenne col loro mondo, praticamente da sempre, i veri responsabili dell’adozione, da parte nostra, di parole arabe.

Sin dall’epoca delle Repubbliche Marinare i nostri mercanti avevano uffici, oltre che in patria, anche in quelle terre; nei mercati e nelle “borse”, sino al secolo XIX non era l’inglese la lingua che gli imprenditori dovevano conoscere bene per gestire i loro affari, ma l’arabo.

Per questo i numeri che usiamo da sempre sono quelli cosiddetti arabi (in realtà sono sanscriti); e se dall’1 al 9 noi usiamo per pronunciarli parole d’origine latina lo zero è, in tutto il mondo, esclusivamente loro: sifr, dal quale deriva anche la parola cifra.

Allo stesso modo tara è la tarh (detrazione); tariffa è la ta’rifa (notizia pubblicata);  gabella la qabala (parola di origine ebraica) e il tentare la fortuna attraverso la cabala per riuscire a pagarle invece voleva dire affidarsi alla qabbalah, (tradizione dell’interpretazione delle sacre scritture).

Allora, come ora, le merci venivano acquistate tramite sensali (simsar, mediatore), trasportate da facchini (faqih) in grandi fardelli (fard, uno dei due carichi del cammello) dentro magazzini (makahzin) o  fondachi (funduq, deposito) e meticolosamente inventariate su taccuini (taquim, giusta disposizione).

I genovesi furono i primi a stiparli di cotone (qutun) e di pietre quali lapislazzuli (lazuward, azzurro).

Altri, in una gara (gara’) all’importazione, prediligevano albicocche (al-barquq), carciofi (kharshuf), arance (narangia), limoni(limum), asparagi (aspanakh),  zibibbo (zabib), zucchero (sukkar) e zafferano (za’faran).

Le carovane (carwan, compagnie mercantili), ne riempivano le stive a bizzeffe (bizzaf, gran quantità); poi ogni ammiraglio (amir, capo principe della flotta), dopo una sosta in darsena (dar-sina’a, casa del mestiere) per controllare che tutto fosse a posto, dava l’ordine ai marinai di staccare le gomene (ghumal) dalle bitte dei moli e iniziare la navigazione verso casa.

Di notte, con la nuca (nukha, midollo spinale) piegata all’indietro, il comandante coi suoi strumenti osservava lo zènit (il punto della volta celeste perpendicolare alla testa di chi osserva il cielo) e studiava il nadìr (il punto opposto allo zènit).

Sferzato dallo scirocco (shuluq) e dal libeccio (lebeg), pensava alle serate tranquille trascorse a casa sua sdraiato sul divano (diwan)  giocando a scacchi (schiah) con la moglie e sorseggiando sciroppo (sharub) di ribes (ribas) e sherry (xeres), mentre i figli allegri in giardino si scatenavano in partite a volano con le racchette (rahet, palmo della mano).

Il mercante invece, in pigiama (payjamé, vestito con le gambe) sdraiato sul materasso (matrah) non riusciva a dormire.

Sorseggiando caffè (kahvè), teneva stretta a sé la valigia (valiha) degli ori, paventando l’irruzione di un ladro reso magari talmente violento dall’alcol (al-kuhl)  da diventare un feroce assassino (hashishiìn, drogato di hashish).

© Mitì Vigliero