Vi Racconto Perché Si Dice “Fare un Cancàn”

Non c’entra nulla il Can-Can del Moulin Rouge, ossia il celeberrimo e scatenato ballo francese il cui nome deriva da canardanatra, o meglio dal movimento del palmipede che – quando cammina impettito – agita velocissimo il sederino proprio come le ballerine nella citata e maliziosa danza prima del lancio delle gambe all’insù.

La vera origine riguarda sì sempre la Francia: però secondo me è assai più ridicola.

Alla metà dell’Ottocento un nutrito gruppo di distintissimi professori, intellettuali, letterati e latinisti francesi si riunì a congresso nel Procope, celeberrimo ristorante parigino, per decidere in maniera seria e accademica se la parola latina quamquam (“quantunque”) andasse pronunciata così come si leggeva o alla greca “kamkam“.

Come sempre accade in una comunità quando c’è da decidere fra due cose, si formarono immediatamente due fazioni agguerritissime.

Nacque così una feroce discussione fra studiosi esagitati che,  lanciandosi vicendevolmente piatti, tube, bicchieri, dizionari,  panini e salviette, non facevano che urlarsi rabbiosamente a vicenda “Quamquàm!” e “Kamkàn!” (essendo francesi, accentavano l’ultima vocale).

Fu un caos indescrivibile che finì quasi a botte, seguito da un grande scandalo causato dal comportamento selvaggio e ben poco “accademico” dei paludati intellettuali.

Da quel dì, e proprio negli ambienti letterati e colti, cancàn divenne sinonimo di baccano, chiassataarrabbiatura strillata, grande confusione isterica nata da futili – e spesso assolutamente idioti – motivi.

© Mitì Vigliero

Perché si Dice: Passare un brutto quarto d’ora.

Il modo di dire esatto e completo, ma ormai dimenticato, sarebbe “Passare il quarto d’ora di Rabelais“; si riferisce ad un’avventura che pare sia capitata al celebre scrittore francese entro la prima metà del ’500.

François_Rabelais

Si trovava a Lione, completamente senza soldi e con due problemi; trovare un posto dove dormire e mangiare e  il modo per tornare a Parigi, il tutto ”a gratis“.

L’idea gli venne, e gli parve geniale: si basava tutta sulla sua grande amicizia col Re di Francia, Francesco I, suo massimo estimatore.

Andò quindi nel migliore albergo di Lione, trattenendosi parecchi giorni e rifocillandosi in modo decisamente pantagruelico, ma tenendo sin dall’inizio un comportamento assai misterioso, strano ed ambiguo.

L’albergatore iniziò a nutrire sospetti sempre più grandi su di lui, e Rabelais decise che fosse arrivato il momento di agire.

Una mattina seminò per la stanza tanti minuscoli pacchettini contenenti una polverina bianca (altro non era che zucchero), con su scritto a chiarissime lettere “Veleno per il Re“, “Veleno per la Regina“, “Veleno per il Principino” ecc. ecc., e poi uscì dall’abergo.

Ritornando dopo alcune ore vide che – come previsto dal suo piano – l’albergatore era entrato nella sua camera per frugare fra le sue cose e, trovati i pacchettini minacciosi, aveva immediatamente avvisato i gendarmi.

Erano tempi, quelli, in cui pullulavano congiure e attentati contro i Reali e i potenti in genere; quindi Rabelais venne subito arrestato come “sospetto regicida” e condotto sotto scorta a Parigi, per esser processato per direttissima al cospetto del Sovrano.

In tal modo Rabelais non pagò né l’albergo né il viaggio di ritorno.

Una volta giunto nella capitale, nella prigione del Palazzo Reale, raccontò finalmente tutta la sua “macchinazione” ai giudici, dicendo loro di avvisare il suo amico Re che di certo – divertito come al solito dal suo geniale umorismo – avrebbe dato immediato ordine di liberarlo.

Francesco I ascoltò tutta la storia riportata dai giudici ed effettivamente si divertì moltissimo ma, prima di andare a prelevare personalmente l’amico, lo fece aspettare per un lungo quarto d’ora, circondato e minacciato da guardie feroci che gli facevan credere che il Re non solo non l’aveva mai sentito nominare, ma che l’avrebbe condannato a morte come monito a tutti gli attentatori di Altezze Reali.

Passato il brutto quarto d’ora, Francesco lo liberò e gli pagò persino il conto dell’albergo di Lione.

Sì certo: sarebbe stato tutto molto più semplice se Rabelais avesse mandato subito da Lione un bigliettino al Re, chiedendogli aiuto economico. Ma vuoi mettere il divertimento?

© Mitì Vigliero