Genova Com’Era: Antichi Natali

Erano belli i vecchi Natali a Genova, vissuti sino ai primi del XX secolo senza frenesia d’acquisto obbligato, senza isteriche code di auto o mezzi pubblici intasati e quel sottile senso di malessere che oggi ci attanaglia, facendoci pensare quasi con noia “Oddio, è già Natale”.

Allora, per tutto dicembre i vicoli del centro storico si riempivano di ambulanti che vendevano figurine del Presepe in terracotta: contadini, pastori, pescatori, pecorine, mucche, asinelli, sacre famiglie, la profumata erba cocca, il muschio, carta straccia accartocciata e verniciata del color dei monti.

bancarelle di stampe, coltellerie, stoffe, bigiotteria e giocattoli semplici: soldatini di piombo o stagno, bambole dal volto di porcellana dipinto, minuscoli mobili per la casa delle pupe, carrettini di legno, biglie di vetro.

Una settimana prima del gran giorno, nei vicoli trionfava anche la gastronomia: macellai, rosticcieri, confettai, panettieri, formaggiai, trippai, pescivendoli esponevano la loro merce fuori dai negozi su banchi decorati con fronde d’alloro e nastri luccicanti; ma c’erano anche i banchetti ambulanti dei verdurai, detti besagnini (perché provenivano dai campi della valle del fiume Bisagno),che smerciavano noci, pinoli e verdure ancora bagnate di rugiada.

I bimbi erano terrificati e affascinati insieme dalle bancarelle dei polli e tacchini.

Le contadine dall’entroterra li portavano in città vivi, e li tenevano chiusi in stie a fianco al banco; le varie massaie passavano, puntando un dito dicevano «quello lì» e le brave donne afferravano il prescelto, gli tiravano il collo di fronte agli acquirenti e iniziavano a spennarlo, giusto il tempo per la scignùa di fare ancora un po’ di spese.

anche allora c’erano i «vu cumprà»; tremanti di freddo perché vestiti coi costumi leggeri dei loro paesi, un po’ in disparte stavano indiani, cinesi e turchi che vendevano noci di cocco, conchiglie strane, ventagli e lanternini di carta sottile e tappeti.

Tutta Genova si riversava in quelle strade; fianco a fianco camminavano a fatica tra la folla il camallo e lo spedizioniere, l’artigiano e l’avvocato, la sartina e la contessa, assordati tutti allo stesso modo dai suoni di cornamuse, trombette di latta, grida di richiamo dei negozianti, pianti o risate di bimbi, voci litiganti o sghignazzanti: un baillàmme infernale ma allegro.

Ma il 24 pomeriggio tutto spariva: le vie deserte, silenziose, immobili.

La vita brulicava esclusivamente all’interno delle case, soprattutto in cucina.

Una vecchia filastrocca canta:

«Tutto l’anno con gran stento
se se mangia pe no mui,
quande a Zena ven Natale
ciaschedun mangia pe dui
»

(Tutto l’anno a gran fatica, se si mangia per non morire, quando a Genova vien Natale, ciascuno mangia per due).

(da leggere, di Bacigalupo: Il Tondo di Natale, overossia il pranzo natalizio dei veri genovesi)

La preparazione della cena della Vigilia, tradizionalmente di magro, il cui protagonista principale era il cappon magro.

E poi per il pranzo natalizio il rito del brodo per i natalin, la lessatura del cappone, l’arrostimento della bibin-na (tacchina); il ripieno degli stecchi da friggere nell’ostia; la pulitura delle radici di Chiavari da bollire, le patate da fare al forno e in purè da gustare col beròdo, il sanguinaccio, nonché la fabbricazione del pandolce, tramutava le cucine in una sorta di antro stregonesco.

Per il pandolce era fondamentale una perfetta lievitazione, ottenuta solo con buio e calore costante; per questo, fino ai primi del secolo, si portava il prezioso dolce appena impastato a letto, infilandolo al calduccio in fondo alle coperte, accanto al «prete».

Mentre si cucinava, si radunavano per l’occasione intere famiglie con minimo tre generazioni di componenti; fratelli, sorelle, cognati, nonni, zii, cugini…Gli uomini sceglievano i vini e i ragazzini decoravano la casa: il Presepe era già pronto dal giorno dell’Immacolata, ma niente abeti.

L’albero di Natale genovese era l’alloro; frasche, fronde, foglie sparse ovunque; sopra le porte, intrecciate ai lampadari, posate sugli armadi, le credenze e al centro della tavola, in una lunga striscia verdebrillante abbellita da mandarini e arance posta sulla tovaglia.

E finalmente il 25 tutti a tavola, per un pranzo che finiva ufficiosamente intorno alle17, quando sarebbe arrivato il pandolce decorato da un rametto d’alloro, simbolo di gloria e fortuna; veniva passato fra tutti i commensali, che facevano l’atto di baciarlo.

Poi il più piccolo della famiglia doveva togliere il ramoscello, e il più vecchio tagliare le fette: una veniva messa da parte, fasciata in un tovagliolo, per essere distribuita alla famiglia il giorno di San Biagio, per preservare dai mal di gola.

Poi il papà guardava finalmente sotto il piatto, dove – mostrando una gran sorpresa – trovava la letterina scritta dai suoi bimbi e i bimbi,  sotto il loro piatto, scoprivano una moneta, il dinè da noxe (soldino della noce), regalino extra fatto solitamente dai nonni.

Poi recitavano le poesie (È nato alleluja alleluja, è nato il Sovrano Bambino…) e infine tutti mangiavano il dolce brindando col Moscatello di Taggia: dopo quello, tanto per gradire, arrivavano gli anexin (biscotti all’anice), la frutta secca, i canditi, i fondanti, il torrone e infine, a sorpresa, lo stracchino.

© Mitì Vigliero

Vi Racconto La Storia Del Pandolce Genovese

All’estero U Pandùçe lo chiamano Torta Genovese o Genoise, a Londra Genoa cake; nel sanremese aveva il nome di Pan du Bambin.

Secondo lo storico Luigi Augusto Cervetto (1834-1923), il Pandolce ha origini persiane, soprattutto per una ritualità ad esso legata: appena spuntava l’alba del giorno di Capodanno, il più giovane fra i sudditi portava al Re come dono beneaugurante un grande pane dolce, pieno di mele e canditi, che veniva diviso fra tutti i dignitari di Corte.
E ancora oggi sulle tavole liguri, dovrebbe essere il più giovane della famiglia a portare a tavola il pandolce, togliendone dalla cima un rametto d’alloro simbolo di benessere e fortuna.

Secondo altri deriva dall’antichissimo pane ligure detto pan co-o zebibbo , con l’uva secca, arricchito negli anni di cedro o zucca candita, acqua di fior d’arancio, semi di finocchio, pinoli…

Oggi il pandolce si compra bell’e fatto, ma un tempo le donne lo preparavano in casa; ciascuna aveva la sua ricetta segreta e il suo modo particolare di confezionarlo.

La lievitazione è importantissima per questo dolce; ha bisogno di caldo costante e così alcune scignùe (signore) fino al secolo scorso se lo portavano a letto, ponendolo in fondo, sotto le coltri, accanto al “prete” che racchiudeva lo scaldino.

Poi lo si cuoceva nel runfò (cucina a legna), o si portava dal fornaio di fiducia.

Sino ai primi del 900 quasi nessuna pasticceria o forno vendeva il pandolce; veniva preparato solo per quelli che qui si chiamano foresti (forestieri), che lo ordinavano espressamente per portarselo nelle case lontane.

Come voleva la tradizione, era il Capofamiglia che a Natale, terminato il pranzo, tagliava solennemente il pandolce; la prima fetta era destinata alla Mamma “per l’assaggio”.
Mentre tagliava recitava questo augurio (ve lo scrivo più o meno come si pronuncia):

Vitta lunga con sto’ pan!
Prego a tutti tanta salute
comme ancheu, comme duman,
affettalu chi assettae
da mangialu in santa paxe
co-i figgeu grandi e piccin,
co-i parenti e co-i vexin
tutti i anni che vegnià
cumme spero Dio vurrià.

“Vita lunga con questo pane! Prego per tutti tanta salute, come oggi, così domani (si possa) affettarlo qui seduti,  per mangiarlo in santa pace coi bambini, grandi e piccoli, coi parenti e coi vicini, tutti gli anni che verranno, come spero Dio vorrà”

Poi il Babbo leggeva ad alta voce le letterine  che i figli gli avevano messo sotto il piatto, e i bimbi recitavano cantilenanti la classica poesia stando in piedi sulla sedia.

Finalmente il pandolce veniva distribuito a tutti i convitati, tranne una fetta che, avvolta in un tovagliolo, veniva messa da parte per essere mangiata – un pezzettino a testa – il 3 febbraio, giorno di San Biagio protettore della gola.

© Mitì Vigliero

Quelli in foto sono i pandolci della Pasticceria Copello, e qui c’è la loro ricetta gentilmente fornita dal Tesoromio Luca Antonini

Natale è il Giorno dei Dolci Pani: dal Panfrittella al Panettone.

Nella Roma imperiale del III sec, si era imposto il pagano Culto del Sole.

Aureliano stabilì che il 25 dicembre fosse celebrata la festa delNatalis Solis Invicti”, Natale (Nascita) del Sole Invitto, in cui si onorava il Sole che nasceva a nuova vita dopo il solstizio invernale.

Plinio il Vecchio narra che quel giorno sulle tavole compariva ritualmente un sacro Panfrittella fatto di farine varie; e nell’antica Persia, al termine del solstizio, il suddito più giovane portava al Re come dono beneagurante un grande pane dolce farcito di miele e canditi.

Inoltre Gesù – che si definì “il Pane della vita” – nacque a Betlemme che nell’ebraico “bet lehem” significa Casa del Pane, perché circondata da grandi campi di frumento e quindi granaio ufficiale della Palestina.

Perciò il nostro Natale cristiano venne da sempre chiamato “Giorno del Pane” e proseguì l’usanza di consumare dolci a base di farina.


(Certosino di Bologna, foto Wikipedia)

In Italia, ogni regione ha il suo pane natalizio; a Bologna c’è il Pane Certosino, di origine contadina, farcito di puré di zucca, miele, uvetta, burro e cedro; a Roma il Pangiallo, perché ricoperto di rosso d’uovo battuto che durante la cottura nei forni diviene color oro, come l’interno del Pandoro di Verona che è l’evoluzione del più antico Nadalin.

Ferrara il Panpepato, con marmellata di zucca, miele e un pizzico di pepe; anche in Umbria esiste il Panpepato, dove il miele però fa da colla a uva passa, cioccolato, noce moscata, mandorle e noci,  ingredienti che ritroviamo pure nel Panforte di Siena.

(Panforte di Siena)

In Veneto la Pinza, farina di mais mescolata a frutta secca; a Bari, vincotto di fichi, carrube e fior di farina danno origine al Panvisco, di origine turca e in Alto Adige lo Zelten.

Genova c’è il Pandolce, detto a Londra Genoa cake”, che deriva dall’antichissimo Pan co-o zebibbo, con l’uva passa, al quale le massaie, poco per volta, unirono tutto ciò che di dolce potevano trovare: zucca e cedro canditi, pinoli, uvetta, acqua di fior d’arancio, pinoli.
Questo, durante la lievitazione, ha bisogno di caldo costante; e così sino al secolo scorso le signore, dopo averlo impastato se lo portavano a letto, ponendolo sotto le coltri in fondo, accanto al “prete” che racchiudeva lo scaldino. (Qui tutta la storia)


(Il Pandolce di Luca, con ricetta)

Infine, l’ultimo celeberrimo pane di Natale è il Panettone di Milano, nato o il 25 dicembre del 1386 per un errore di cottura nella cucina degli Sforza, errore rimediato in corner grazie all’abilità d’un giovane cuoco chiamato Toni (Pan de Toni), o nel 1490 grazie all’amore di Ughetto degli Atellani nei confronti di Adalgisa, figlia di un fornaio.
Per ingraziarsi il futuro suocero in crisi economica il ragazzo, che era arrivato al punto di farsi assumere “a gratis” come garzone di bottega, pur essendo negato come cuoco riuscì a inventare un apprezzatissimo pane di Natale dolce, profumato e soffice come una nuvola.

(Panettone di Milano)

Romantiche leggende a parte, sembra che il Panettone sia nato e si sia affermato a Milano e ovunque alla fine del 1700 durante il dominio napoleonico, grazie allo sviluppo economico e commerciale dovuto alla presenza in città delle ben pagate truppe francesi; tutti i commercianti, pasticceri compresi, si sbizzarrirono a creare nuovi ricchi prodotti capaci di soddisfare le richieste di un nuovo pubblico agiato e goloso.

© Mitì Vigliero