All’estero U Pandùçe lo chiamano Torta Genovese o Genoise, a Londra Genoa cake; nel sanremese aveva il nome di Pan du Bambin.
Secondo lo storico Luigi Augusto Cervetto (1834-1923), il Pandolce ha origini persiane, soprattutto per una ritualità ad esso legata: appena spuntava l’alba del giorno di Capodanno, il più giovane fra i sudditi portava al Re come dono beneaugurante un grande pane dolce, pieno di mele e canditi, che veniva diviso fra tutti i dignitari di Corte.
E ancora oggi sulle tavole liguri, dovrebbe essere il più giovane della famiglia a portare a tavola il pandolce, togliendone dalla cima un rametto d’alloro simbolo di benessere e fortuna.
Secondo altri deriva dall’antichissimo pane ligure detto pan co-o zebibbo , con l’uva secca, arricchito negli anni di cedro o zucca candita, acqua di fior d’arancio, semi di finocchio, pinoli…
Oggi il pandolce si compra bell’e fatto, ma un tempo le donne lo preparavano in casa; ciascuna aveva la sua ricetta segreta e il suo modo particolare di confezionarlo.
La lievitazione è importantissima per questo dolce; ha bisogno di caldo costante e così alcune scignùe (signore) fino al secolo scorso se lo portavano a letto, ponendolo in fondo, sotto le coltri, accanto al “prete” che racchiudeva lo scaldino.
Poi lo si cuoceva nel runfò (cucina a legna), o si portava dal fornaio di fiducia.
Sino ai primi del 900 quasi nessuna pasticceria o forno vendeva il pandolce; veniva preparato solo per quelli che qui si chiamano foresti (forestieri), che lo ordinavano espressamente per portarselo nelle case lontane.
Come voleva la tradizione, era il Capofamiglia che a Natale, terminato il pranzo, tagliava solennemente il pandolce; la prima fetta era destinata alla Mamma “per l’assaggio”.
Mentre tagliava recitava questo augurio (ve lo scrivo più o meno come si pronuncia):
Vitta lunga con sto’ pan!
Prego a tutti tanta salute
comme ancheu, comme duman,
affettalu chi assettae
da mangialu in santa paxe
co-i figgeu grandi e piccin,
co-i parenti e co-i vexin
tutti i anni che vegnià
cumme spero Dio vurrià.
“Vita lunga con questo pane! Prego per tutti tanta salute, come oggi, così domani (si possa) affettarlo qui seduti, per mangiarlo in santa pace coi bambini, grandi e piccoli, coi parenti e coi vicini, tutti gli anni che verranno, come spero Dio vorrà”
Poi il Babbo leggeva ad alta voce le letterine che i figli gli avevano messo sotto il piatto, e i bimbi recitavano cantilenanti la classica poesia stando in piedi sulla sedia.
Finalmente il pandolce veniva distribuito a tutti i convitati, tranne una fetta che, avvolta in un tovagliolo, veniva messa da parte per essere mangiata – un pezzettino a testa – il 3 febbraio, giorno di San Biagio protettore della gola.
Quelli in foto sono i pandolci della Pasticceria Copello, e qui c’è la loro ricetta gentilmente fornita dal Tesoromio Luca Antonini