5 luglio: di porticine segrete, verdi lune e giardini nel piatto

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Nel giardino della Vecchia Casa c’è un piccola porta scavata nel muro e quasi nascosta dal verde di alberi antichi e ciuffi di ribes e lamponi.

Ogni volta che la guardo ricordo quando, da bambina, trascorrevo moltissimo tempo in quella Casa e in quel giardino insieme ai Nonni.
E quella porticina era per me qualcosa di magico, a partire dall’immensa e pesantissima chiave di ferro che l’apriva; sapevo che quando noi tre uscivamo da lì, saremmo andati a fare una passeggiata nei prati vicini, passeggiata che aveva uno scopo preciso che a me piaceva moltissimo.

Nonna portava al braccio un panciuto paniere di giunco, e camminava elegante e fiera come avesse indossato una borsetta di Chanel. Io davo la mano a Nonno e la nostra lunga camminata s’interrompeva spesso per raccogliere erbe profumate (“Mi raccomando, lascia la radice!”) che variavano a seconda della stagione; foglie di malva, di borragine, di sarzetto, di denti di leone, foglioline vellutate di primule tardive, di cerfoglio e anche di giovani ortiche.
Quest’ultime – che temevo assai causa le dolorosissime strisce rosse che spesso mi procuravo sulle gambe quando inavvertitatemente le sfioravo – Nonna le coglieva a mani nude senza mai farsi male: e per me osservarla era ogni volta un enorme stupore (“Ma come fai?”).
E poi coglievamo fiori: calendule color del sole al tramonto, cappuccine rosse, violette, i bellissimi fiori blu della borragine, nasturzi arancioni, minuscole e candide margheritine…

Finito il raccolto, tornavamo riaprendo la Porticina magica; attraversando il giardino nel paniere finivano ancora qualche petalo di rosa, un paio di lunghi rametti di menta e un ciuffo di erba di San Pietro.

Una volta a casa Nonna lavava delicatamente i fiori e le foglie; poi tritava finissime quelle d’ortica, malva, borragine, primula, viola, menta, San Pietro.
Infine in un piatto rompeva le uova, le salava, le sbatteva veloce con una forchetta. Poi poneva una larga pentola di ferro sul runfò, un po’ d’olio, faceva rosolare velocemente le erbette tagliate, univa le uova ed ecco nascere una meravigliosa frittata color di prato.
Nel frattempo con Nonno preparavamo l’insalata col sarzetto, il cerfoglio, i denti di leone e tutti i petali dei fiori raccolti.

Il rito, perché era un rito vero e proprio, solenne e sereno, terminava con noi tre seduti attorno al tondo piattone contenente una calda Luna Verde e accanto, l’insalatiera colma di un variopinto giardino…

Tutto questo mi torna in mente guardando quella Porticina scavata nel muro e quasi nascosta dal verde di alberi antichi e ciuffi di ribes e lamponi.

Allora avevo 8 anni. Oggi, 5 luglio, 58.

E vorrei tanto avere come torta di Compleanno una Luna Verde e un Giardino nel piatto dello stesso, identico profumato sapore di allora.

© Mitì Vigliero

Nel primo cassetto del comò

como

Purtroppo capita a tutti prima o poi di dover svuotare le case di nonni, zii e genitori che non ci sono più. Io in questi ultimi anni ne ho svuotate tante… E mi sono accorta che i contenuti del primo cassetto dei vecchi comò – ampi, profondissimi, capaci di contenere un mondo intero – appartenuti a persone nate all’inizio dell’Ottocento o ai primi del Novecento sono praticamente identici.

santini

Libretti da Messa, immaginette, santini, miriadi di medagliette di santi attaccate a minuscole spille da balia. E veli da messa in pizzo, bianchi e neri. Fazzoletti ricamati, minuscoli se femminili, enormi e cifrati, di spesso lino e cotone se maschili; nuovissimi, intonsi perché “troppo belli per essere usati”.

guanti

Poi guanti di pizzo sottile come ragnatela o di pelle divenuta dura come cartone; minuscoli bottoni in madreperla, tondi bottoni per colletti di camicia. Colletti e polsini di cotone inamidato o in celluloide; carte veline sottilissime contenenti fiori secchi, bomboniere ancora con i confetti dentro.

manicure

Scatoline di stoffa ricamata con il necessaire per la manicure; pettini d’osso, spazzole morbidissime che spolveravano i capelli più che districarli. Scatolette metalliche piene di monetine fuori corso; portafogli e borsellini d’ogni materiale o dimensione con dentro monete di carta da 1 lira, biglietti di teatro, ricevute d’offerte alla parrocchia o tessere di qualche associazione.

lettere

Pacchi di lettere scritte con inchiostro e pennino, legate con cordini o nastrini di seta, tutte con la minuta allegata. Lettere d’amore, lettere d’auguri, lettere dal fronte; lettere di parenti lontani che annunciavano visite, matrimoni, nascite e morti. Le partecipazioni di quelle nascite, matrimoni, morti. E lettere “d’affari”; testamenti, preventivi di lavori in muratura, acquisto beni vari, contratti, elenchi notarili di dote, note di affitto, ricevute d’acquisti, quadernini contenenti le spese di ogni mese, anche le più piccole; calendarietti e agendine mai usate.

villa Ida

E fotografie, tante fotografie; piccole, spesso dai bordi ondulati, carta spessa, color seppia o in bianco e nero. La più belle venivano tramutate in cartoline, da spedire a persone lontane. Foto di case, paesaggi, animali, paesi. Volti di amici, parenti, coscritti, compagni d’arme, di scuola, di caccia; neonati fasciati come mummie o nudi su pelli bianche; bimbi battezzandi, comunicandi e cresimandi; gruppi di persone in gita, raggruppati vicino a una sposa, a tavola, seduti sui prati, su panchine in giardino, su scogli in riva al mare. Persone appoggiate – col vestito bello – a colonne di marmo o poltrone da scena con dietro tendoni drappeggiati; ore di posa in studi di fotografi professionisti, lampi di magnesio, volti un po’ perplessi, serissimi, sempre.

In questi anni ho ricostruito vite intere grazie a quelle lettere, biglietti, quadernini, fotografie.

Ho visto i volti di quadrisnonni e trisnonni, ho conosciuto il prezzo e il giorno d’acquisto di
oggetti ancora in casa, ho scoperto che il centrino di lievissimo pizzo posato da sempre sul tavolino in salotto è in realtà è un pezzotto genovese regalato da una futura suocera a una futura nuora; ho finalmente capito perché avevano murato porte per riaprirle altrove (“troppo dappresso alla canna fumaria del camino” scriveva al muratore una bisnonna “ogni volta si crepa lo smalto dell’uscio”); ho condiviso l’ansia di mogli coi mariti al fronte, ho saputo il giorno esatto in cui una madre scoprì d’essere incinta e ciò che fu servito durante un pranzo di nozze del 1933.

E mi sono chiesta: i nostri figli e nipoti e i figli dei nipoti potranno ricostruire in modo così accurato le vite familiari passate?
Le fotografie ormai sono tutte digitali; tranne rari casi in cui vengono stampate, rimangono in computer o cellulari. E dopo 10, 20, 40 anni, di sicuro il sistema di lettura di quei file sarà cambiato. La stessa cosa accaduta con le videocassette che contenevano i filmini dei matrimoni; o per vederle ora le riversi in altro sistema, o ti procuri un videoregistratore ancora funzionante.
E le lettere? Fra telefonate ed email resterà ben poca traccia delle nostre comunicazioni, importanti o meno…

Di sicuro chi svuoterà i futuri cassetti dei suoi vecchi – e non cassetti come quelli, non si usa già più il monumentale comò nelle camere da letto – farà più in fretta.

Ma forse – lo chiedo a voi – non avrà, nella sua vita, radici più sottili?

alberogenealogico© Mitì Vigliero 

L’avventurosa storia dell’ottima marmellata di pesche della Signora Teresa

Quel giorno di settembre la signora Teresa era soddisfatta; i due peschi del giardino immerso nella campagna cuneese avevano donato tanti frutti meravigliosi e lei ne aveva fatto – cuocendola lentamente sul putagè – una marmellata ottima.

Ne diede una grande arbanella alla figlia Teresita dicendole: “Tieni, portala a casa; è veramente speciale”.
Ma la figlia signora Teresita aveva appena ricevuto dal marito, Capitano del Regio Esercito, la notizia che si sarebbero dovuti trasferire a Bologna; così traslocò portandosi dietro la marmellata.

“Mia mamma fa una marmellata stupenda” diceva “E quest’arbanella ne è la prova. Non l’ho ancora aperta, perché sembra che dobbiamo ritraslocare subito per Pola; la mangeremo là”

Arrivati a Pola il marito della signora Teresita dovette immediatamente partire per l’Africa; lei diceva ai due suoi bimbi: “Per assaggiare la marmellata di Nonna Teresa aspettiamo il ritorno di Babbo; è troppo buona, è preziosa, saremmo egoisti a mangiarla senza di lui”.

Da Pola andarono a Torino, a Pistoia, a Imperia, a Ceva, di nuovo a Torino, a Civitavecchia, di nuovo a Ceva e poi a Lecce – e la marmellata li seguiva affettuosa – sino a quando il Capitano,  divenuto nel frattempo Tenente Colonnello, Colonnello, dopo aver girato anche in incognito le montagne delle Langhe e per questo motivo soggiornato pure come ospite nella Casa dello Studente, promosso Generale ottenne un trasferimento definitivo a Genova.

“Che bello vivere stabilmente in una casa nostra e non in precari alloggi di servizio” cinguettava la signora Teresita mentre, svuotando le casse dell’ennesimo trasloco, sistemava nella grande dispensa della cucina bottiglie, barattoli e arbanelle.
“Questa marmellata speciale la metto qui bene in vista: Mamma diceva che è ottima, però gustarla solo noi è cosa da egoisti. Conserviamola per i nostri nipotini”.

Fu così che un giorno di marzo del 2014, la nipotina abbondantemente cinquantenne che svuotava con magone la vecchia casa ormai vuota dei nonni, trovò nella dispensa della cucina un’antica arbanella di vetro con su scritto:
Pesche. Ottima. 1938

Bjqr8z-IMAAIJeX© Mitì Vigliero