Bombe Inesplose E Femmine Diaboliche Ovvero Strane Curiosità Sugli Altari Italiani

Molte chiese italiane conservano al loro interno vere e strane curiosità.

Ad esempio nella basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli, sotto l’arco del transetto si trova un maestoso tabernacolo che racchiude un grande crocifisso di legno: però la testa del Cristo è piegata da un lato in modo innaturale.

Sta scritto sulle cronache dell’epoca che il 17 ottobre 1439, mentre Alfonso d’Aragona assediava la città, un proiettile di bombarda spagnola entrò nell tempio – dove era in corso la Messa – puntando dritto al crocifisso, esattamente al volto di Gesù; ma un attimo prima di venir raggiunto, miracolosamente il Santo Capo si spostò e il proiettile colpì di striscio solo la corona di spine, scagliandola lontano.
Il colpo di bombarda è conservato, nella stessa chiesa, nell’ultima cappella a destra.

Un’altra bomba “votiva” si trova ad Ivrea, e pende dalla volta diSan Nicola da Tolentino; venne lanciata dalle artiglierie francesi nel 1704 e non scoppiò, proprio come quell’enorme proiettile da 381 che sta in bella vista nella cattedrale di San Lorenzo Genova: lì piombò il 9 febbraio del 1941, come gentile omaggio degli Inglesi, ma miracolosamente rimase inesploso.

Se nella chiesa di San Carlo in via Balbi a Genova si trova una Polena che diventò Madonna, nella chiesa di Santa Caterina a Treviso c’è il Diavolo vestito da donna.

Infatti, in un grande affresco del Quattrocento attribuito al Pisanello, si vede Sant’Eligio tentato da una matrona riccamente vestita; a osservar bene la signora però, si noterà che fra i capelli fan capolino due corna mentre, sotto la ricca gonna, spunta una lunga coda.

La rappresentazione di un altro travestimento femineo di Belzebù è la Madonna con le Corna  visibile negli affreschi del Foppa che decorano le pareti della Cappella Portinari in Sant’Eustorgio a Milano.

Narra la leggenda che il Diavolo, mentre San Pietro celebrava la Messa, osò prendere le fattezze della Vergine salendo sull’altare.
Pietro però si accorse che il Satanasso distratto, nella fretta del travestimento, si era dimenticato di nascondere col velo le corna che aveva in fronte, e lo cacciò: questo spiega perché la Madonna là affrescata ha le corna (e anche il Bimbo che tiene in braccio ha le cornine).

E sul primo altare a destra della chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina, si trova un curioso quadro di Leonardo da Pistoia che rappresenta San Michele Arcangelo che calpesta e trafigge il Demonio raffigurato come un’orripilante creatura, mezza spaventoso drago e mezza splendida donna bionda.

Si tratta di un’immagine votiva del committente del quadro, Diomede Carafa vescovo di Ariano, il quale in tal modo – nel 1542 – volle ringraziare Dio della grazia d’averlo fatto resistere alle “lusinghe diaboliche” della nobildonna Vittoria d’Avalos: difatti sotto il quadro sta scritto “Fecit Victoriam Alleluia 1542, Carafa”.

Ma il viso della donna è talmente bello che i napoletani, come narra Benedetto Croce nello splendido Storie e Leggende Napoletane (1919), ne rimasero completamente affascinanti iniziando a usarlo subito come popolare termine di paragone.

E ancor oggi, per definire una donna che può portar guai, la definiscono “Bella come il diavolo di Mergellina”.

Update:

L’amico Jacopo Giliberto mi segnala via mail altre meravigliose stranezze:

” A Santa Maria delle Grazie, santuario dei Gonzaga alle porte di Mantova, nelle nicchie sulla navata ci sono statue come ex voto.

Sono statue di cartapesta soprattutto del periodo ‘400-‘600. Eccone una:

(*)

Un’altra:

(*)

Alcune si sono deteriorate, e si è scoperto che sotto la cartapesta dipinta c’erano, come sostegno, armature medievali  che non avevano più alcun valore bellico e quindi erano state usate come manichini per le statue.

Ora il Museo Diocesano ha la più importante collezione di armature gotiche al mondo…”

Qui altre notizie su questo santuario e i suoi spettacolari manichini “armati”.

© Mitì Vigliero

Una Storia Napoletana: I Misteriosi Veli Del Sansevero

A Napoli, in via Francesco De Sanctis 19, si trova il Tempio della Pietà dei Sangro, meglio conosciuto come la Cappella Sansevero.

Marcello D’Orta nel suo “Nero napoletano” (Marsilio, 2004) – delizioso libro che consiglio vivamente di leggere – a pag. 101 scrive:
A metà strada tra lo scienziato pazzo e quello savio era Raimondo di Sangro, duca di Torremaggiore e principe di Sansevero. Di certo fu una delle menti più illuminate del Settecento europeo: inventore, scrittore, pittore, scultore, fisico, medico, matematico, meccanico, alchimista. Una sorta di Leonardo da Vinci che tuttavia la fantasia popolare accosta più volentieri ai personaggi di Faust, Nostradamus o Dracula”.

Nel 1748 Raimondo (1710-1771) decise di restaurare la cappella funebre dei suoi avi annessa al cinquecentesco palazzo; convocando celebri pittori e scultori dell’epoca, ne fece uno dei luoghi barocchi più belli e misteriosi d’Europa.

Il Principe partecipava attivamente alla realizzazione delle opere sia progettandone la forma, sia facendo utilizzare materiali di sua invenzione; ad esempio il meraviglioso Cristo Velato, statua di marmo ricoperta di un velo trasparente che fece impazzire di curiosità professionale il Canova, è sì opera dello scultore Giuseppe Sammartino, ma negli archivi notarili di Napoli la studiosa Clara Miccinelli ha scoperto il contratto fra i Principe elo Scultore che si impegnava a forgiare una “’statua raffigurante un Cristo Velato steso sopra un materasso e che appoggia la testa su due cuscini”, mentre il Principe si impegnava a realizzare una “sindone tessuta la quale dovrà essere depositata sovra la scultura, dopo che il Principe l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minutioso di marmo composito in grana finissima sovrapposta al telo.”

Il Sammartino si impegnava inoltre a ripulire detta “sindone per renderla un tutt’uno con la statua stessa, e a non svelare a nessuno la ‘maniera escogitata dal Principe per la Sindone ricovrente la statua”: venne concordato infine che l’opera sarebbe stata “interamente attribuita al Sammartino”.

Morale, il Cristo Velato appare ricoperto da una stoffa trasparente – una sorta di “plastica” alabastrina – e così è per la rete da pesca che avvolge la statua funebre del padre del Principe  ; tessuti ambedue probabilmente immersi in un liquido che li pietrificava mantenendo inalterata la naturalezza della trama e dei drappeggi.

Non è bella la storia, anche se leggendaria?

Comunque sia, il Principe di Sansevero resterà in gran parte per noi un mistero; le autorità ecclesiastiche (e parte del popolo che ne aveva paura) non lo potevano sopportare perché massone e considerato, proprio per i suoi esperimenti alchimistici, alla stregua di un adepto del diavolo.

Così, dopo la sua morte i suoi eredi, sotto minaccia di scomunica, distrussero completamente scritti, formule, testi, appunti, oggetti, mettendo così al rogo ogni testimonianza di un Genio troppo evoluto per la sua epoca.

© Mitì Vigliero

Pomme d’Amour: la Storia del Pomodoro

Circa sei decenni dopo la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo, il gesuita Josè de Acosta, tornato da un lungo viaggio in Perù, annotò nelle sue “Historie naturali e morali” che gli indios coltivavano ed erano ghiotti di una strana sorta di grossa uva che presentava acini sugosissimi: li chiamavano tomate e oltre ad essere belli “alla vista”, erano anche molto rinfrescanti nonché indubbiamente più piacevoli da mangiare a morsi del peperoncino.

Perché quindi non provare a coltivarli anche in Europa?

La saggia proposta di padre Josè suscitò scalpore: mangiare quei cosi, che di certo erano velenosi vista la loro strana forma di abnorme bacca? Per non parlare del colore, rosso come il fuoco dell’Inferno.

Eppoi nel Vecchio Mondo era consuetudine antica quella del “mangiare bianco“, simbolo di purezza per l’organismo; al massimo si condivano i cibi con tonnellate di cannella, mandorle, miele e acqua di rose e di arancio…

Così, i primi esemplari di pomodori introdotti dalla Spagna nel Vicereame di Napoli, rimasero una mera curiosità botanica; data la loro forma piccolina (simili a quelli che ancora oggi chiamiamo ciliegini), vennero appunto classificati come licepersicum cerasiforme, praticamente considerati grosse ciliegie.

Dovettero trascorrere ancora quasi due secoli prima che qualcuno scoprisse le vere virtù del ciliegione, e non fu un napoletano a farlo bensì un cuoco francese rimasto sconosciuto il quale, entusiasta, lo chiamò “pomme d’amour”, esaltandone le doti afrodisiache.

Che fosse afrodisiaco ovviamente non era vero per niente; ma forse fu la molla che spinse gli italiani a convertirsi all’ottimo ortaggio, pur sempre con molta cautela visto che ancora il 29 maggio 1787 Wolfang Goethe, nel diario del suo viaggio in Italia, raccontava aver mangiato a Napoli zuppe di pesce, polpi e maccheroni, deliziosi sì ma tutti ancora rigorosamente cucinati in bianco, senza la minima traccia di pomodoro.

Fu ufficialmente nel 1839 che il napoletano Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino , autore della Cucina teorico-pratica, pubblicò un “saggio” sulla “Sauza di pommadore ammature” (salsa di pomodoro maturo); che l’avesse inventata lui o un suo cuoco, non è dato sapere.

Fatto sta che il nobiluomo suggeriva di metterla “ncopp’a la carne, ncoppa li pulle, ncoppa lo pesce, ncoppa l’ova”, ‘ncoppa ovunque tranne che, chissà perché, sulla pasta.

Ma fu proprio il popolo napoletano che, pratico e affamato, volle per primo farne la prova, mettendo la pummarola sul cibo che consumava di più perché nutriente e poco costoso: maccheroni e pizza.

Fu un trionfo che dilagò ovunque.

Dalla metà dell’Ottocento dall’America giunsero le qualità di pomodori più grandi che mantenevano nomi anglosassoni: Liwingston, Duke of York, Perfection, Champion, Mikade, e in Italia nacquero il Genovese, il Riccio di Parma, il Rosso costoluto, il Riccio romagnolo, il Sanmarzano, il Roma e via di seguito.

Fu così che, dopo aver avuto tante difficoltà nell’essere accettato il pomodoro divenne infine, volenti o nolenti, uno dei simboli d’Italia.
© Mitì Vigliero