Vi Racconto Come Nacque L’Aspirina

salix alba

Già Ippocrate di Kos (460-377 aC)  consigliava come antidolorifico alle partorienti sofferenti per le doglie di bere un infuso di foglie di “Salix Alba Vulgaris”; il salice bianco, contenente acido salicilico, ma questo il medico ateniese non lo sapeva.
Anche Plinio attribuiva al salice proprietà analgesiche e Dioscoride (I sec d.C.), lo prescriveva per combattere febbri e “eccitazione sessuale”.

L’uso del salice come pianta medicamentosa venne ignorato dalla medicina medioevale; anzi, editti speciali proibivano la raccolta dei rami per altro uso che non fosse quello della costruzione di ceste.

Nel XIII sec. i medici della Scuola Salernitana ne riesumarono l’uso in modo curioso, prescrivendolo nei conventi; questo perché pensavano che il salice fosse un antiafrodisiaco, annientatore di ogni  libidine.

In Italia questa convinzione (una delle prime leggende metropolitane della storia) durò a lungo; il medico senese Mattioli nel 1600 prescriveva foglie di salice tritate e mescolate a vino e pepe per lenire il “dolore dei fianchi”, che non era il mal di reni ma il desiderio sessuale represso.

E anche lo scienziato illuminista Fusanacci nel 1784 asseriva che “il sugo cavato dai rami teneretti allontana egregiamente le libidinose voglie”.

Ma quasi contemporaneamente a Chipping Norton, Oxford, un pastore protestante appassionato di botanica, Edward Stone, un dì passeggiando in un bosco decise di masticare un pezzetto di corteccia di salice; mentre la sputava disgustato pensò che il sapore era assai simile a quello amaro della cinchona, la pianta peruviana del chinino, unico antimalarico conosciuto allora.

Così, dopo averne sperimentato il decotto su 50 malati, il 2 giugno del 1763 presentò alla Royal Society di Londra un saggio in cui dichiarava quanto la febbre di questi fosse rapidamente diminuita.

Un’involontaria spinta agli studi di ricerca venne data da Napoleone che nel 1803 proibì qualunque importazione di merci dai territori inglesi, chinino compreso.

Cercando freneticamente un sostituto autoctono, nel 1828 a Monaco di Baviera il chimico Johannes Buchnder bollendo del salice ne ottenne una materia gialla che battezzò “salicina”; nel 1829 un farmacista franceseLeoroux, la isolò in forma cristallina composta da glucosio e alcool salicilico (500 gr. di scorza di salice davano 30 gr di salicina).
Nel 1838 il chimico calabrese Raffaele Piria scoprì l’acido salicilico e nel 1853 il francese Charles Frédéric Gerthardt produsse l’Acido Acetilsalicilico puro che abbassava sì la febbre, ma ammazzava i pazienti con gravissime emorragie gastrointestinali.

Finalmente nel 1897 un giovane chimico della BayerFelix Hoffmann, combinando l’acido salicilico con l’acido acetico (acetilazione) sintetizzò chimicamente l’ASA (acido acetilsalicidico in forma stabile, questa volta abbastanza ben tollerato dagli stomaci umani).

Bayer

(Archivio Bayer, 1897)

Il 23 gennaio 1899 la Farbenfabriken di Friederick Bayer & C. battezzò il farmaco Aspirina: A” da acetil e “spir”, da acido spireico sinonimo di salicilico e il suffisso -ina , molto usato nei nomi dei medicinali di allora.
Il 1° febbraio ne depositò il marchio all’ufficio imperiale brevetti di Berlino e il 6 marzo mise in commercio la prima confezione di aspirina da 500 mg

Da allora ne sono state consumate centinaia di migliaia di compresse e attorno a lei – come capita a tutte le famosissime dive – sono nate pure altre varie leggende metropolitane che spesso la abbinano alla bibita più famosa del mondo, la Coca Cola, la cui storia vi racconterò appena l’Aspirina mi farà passare i dolori da influenza.

© Mitì Vigliero 

La Storia nel Piatto e la Ricetta delle Superbe Tomaxelle

Era il 1800. Napoleone aveva appena sconfitto gli austriaci nella battaglia di Marengo e, da soddisfatto condottiero, si accorse di avere una fame tremenda.
Però il carro che trasportava le provviste non era stato, ovviamente, portato in prima linea e così una pattuglia di soldati francesi venne spedita dal Cuoco di campo in giro per la deserta campagna a caccia di qualcosa atta a sfamare il Bonaparte.
Il bottino (una gallina, sei gamberi di fiume, quattro pomodori e tre uova) venne solennemente consegnato al Cuoco il quale buttò tutto in una pentola assieme a un po’ d’aglio e olio, e lo servì in tavola accompagnato da un bicchiere di cognac.
Napoleone rimase entusiasta del fantasioso piatto, lo battezzò Poulet Marengo e ordinò che gli venisse servito dopo ogni battaglia. Così il “Pollo alla Marengo” divenne una pietanza famosissima, che chissà quante volte avete assaggiato senza immaginarne i retroscena.

In realtà sono tanti i cibi che la storia (o la leggenda) narra esser nati durante le guerre, forse come consolazione.

Basti ricordare i deliziosi involtini di carne tipici della cucina genovese (e purtroppo ormai quasi dimenticati) chiamati Tomaxelle, dal latino tomaculum, salsicciotto, la cui ricetta trovate a fondo pagina.

Racconta lo storico Dolcino:

“Nell’anno 1800 Genova visse una delle congiunture più drammatiche della sua esistenza.
Le truppe francesi del generale Massena – che doveva essere ribattezzato Ammassa Zena, Ammazza Genova- vi si erano asserragliate, strette dagli inglesi sul mare e dagli Austriaci per terra. I disagi aumentavano giorno dopo giorno, la fame serpeggiava per tutti, a rivoli sempre più inquietanti (…) Eppure, quando venne fatto prigioniero un gruppetto d’ufficiali austriaci, fu loro servito un piatto che li costrinse a sbarrare gli occhi: odorose, appetitose Tomaxelle (…) Si trattava di un espediente comune nell’arco della storia, volto a scoraggiare gli assedianti, a mostrar loro che gli assediati erano ben lungi dalla fine per inedia; ma in realtà, almeno per allora, non si trattava di una preparazione costosa”.

Il buffo è che uno degli ufficiali, non si sa se diffidente o orgoglioso, si rifiutò categoricamente di mangiarle e volle solo una tazzina di brodo: peggio per lui.

Restando in Liguria, bisogna citare anche il prebuggiùn , un mazzo composto di un po’ di bietole, coste, borragine, spinaci, cavoli cappucci e prezzemolo che si usa soprattutto nei ripieni e nelle minestre (ma nella bella stagione ciascuno, facendo una passeggiata “fuori porta”, potrà farsi il suo mazzo di preboggiùn raccogliendo radicchio selvatico, cerfoglio, pimpinella, cicerbita e talegua, vulgo “dente di cane”…).

Riguardo al nome una  buffa storia leggendaria lo fa risalire all’epoca della Prima Crociata: durante l’assedio di Gerusalemme, il valoroso comandante Goffredo di Buglione s’era beccato un accidenti intestinale che lo teneva bloccato a letto. I suoi soldati allora, volendo curargli il pancino con verdure rinfrescanti, andavano in giro per le case degli abitanti di quei posti chiedendo erbe “per Buglione“; ma essendo i soldati per lo più genovesi, parlando nel loro dialetto in cui la o diventa u, domandavano erbe “pre Buggiùn“: e prebuggiùn rimase.

Pare impossibile, ma anche la notissima e allegra salsa maionese nacque durante un assedio e precisamente quello di Mahon (1756), capitale di Minorca, isola delle Baleari in cui non mancavano certo olio, limoni e uova.
Fu con questi ingredienti che un uomo potentissimo e scaltro come l’ammiraglio francese Louis-François-Armand du Plessis duca di Richelieu inventò (suggerendola personalmente al suo cuoco, si dice) appunto la mayonnaise, traendo spunto dal nome della città che i francesi pronunciavano Mayon.

Fortunatamente esistono anche cibi nati in occasioni più serene.

Il quarto Conte di Sandwich (1718-1792) era un giocatore di scacchi talmente accanito che non tollerava di dover interrompere una partita per andare a mangiare. Così diede ordine ai suoi servitori di servirgli, all’ora di pranzo, solo una fetta di carne, o del formaggio, o del prosciutto, qualunque cosa che potesse essere racchiusa tra due fette di pane e mangiata con le mani direttamente sul tavolo da gioco: il sandwich, appunto.

Anche la galanteria diede origine a deliziosi piatti; nel 1861 nei pressi di Melbourne, nacque Helen Portel Mitchell.

Nel 1887 debuttò come cantante lirica al teatro dell’Opera di Bruxelles prendendo il nome d’arte di Melba, in onore della sua patria. Nel 1889  il celeberrimo Escoffier, durante un ricevimento in onore della ormai famosissima cantante all’Hotel Ritz-Carlton, presentò la Pesca Melba, dolce giunto sino a noi.

E infine come non essere eternamente grati a quel pizzaiolo napoletano che, alla fine dell’Ottocento, in occasione di una visita dei sovrani Savoia a Napoli, fece recapitare alla Regina più amata dagli italiani una pizza tricolore (pomodoro, formaggio e basilico) battezzata, appunto, Pizza Margherita?

E ora eccovi la ricetta delle Tomaxelle :

8 fettine di fesa di vitello tagliate sottili sottili
1 h. di macinata magra di vitello
100 gr. di punta di petto macinata o di cervella o di animella o di filoni e di tettina o di un po’ di tutto ciò (che sommato faccia sempre 100 gr) mescolato insieme
50 gr. di funghi secchi
3 cucchiai di pinoli
2 uova
la mollica di un piccolo panino ammollata nel brodo
3 cucchiai di formaggio grana
mezzo bicchiere di brodo
2 tazze di sugo di manzo, di funghi o semplice pomodoro
2 chiodi di garofano
1 spicchio d’aglio
una grattata di noce moscata
1 mazzetto di prezzemolo
sale
pepe
filo da cucire

Sbollentare la punta e il vitello ; tritare i pinoli, l’aglio, i funghi, il prezzemolo e la mollica. Versare nel mortaio insieme alle carni macinate, le uova, il parmigiano, il chiodo di garofano e la noce moscata. Pestare accuratamente, amalgamando a lungo. Mettere sul tagliere le fettine di fesa ben distese, versare su ogni fetta il composto, arrotolare le fettine e legarle col filo da cucire.
Ora i metodi di cottura sono due:
1) Rosolare le tomaxelle a fuoco vivo nel burro, bagnarle col vino bianco e aggiungere il sugo e il brodo lasciando cuocere per 15 minuti.
2) Mettere direttamente le tomaxelle in una casseruola larga e alta, coprirle con sugo e brodo e cuocere a fuoco dolcissimo per 30 minuti.

© Mitì Vigliero

Una Storia Profumata: Come Nacque l’Acqua di Colonia

(*)

Nel 1666 nacque a Crana, in Valle Vigezzo, Giovanni Paolo Feminis il quale, ancora ragazzino, emigrò in Germania per far fortuna come commerciante.

Giunto a Colonia aprì una distilleria-erboristeria specializzata nella vendita dei profumi, soprattutto dell’ “Aqua mirabilis“, un’acqua profumata medicamentosa a base d’alcol e basata su un’antichissima ricetta conventuale, creata cioé nei conventi da frati erboristi, di cui il Fermis era venuto in possesso.

Una trentina d’ anni dopo un suo cugino, Giovanni Maria Farina, sempre vigezzino , partì dal paese natio Santa Maria Maggiore per recarsi pure lui a Colonia per dirigere di una ditta di spedizioni; giunto lì si occupò anche della ditta del Feminis, lanciando l’Acqua mirabilis col marchio di “Eau admirabile de Cologne“, rilevando l’antica casa produttrice e fondando la “Johann Maria Farina Gegenuber dem Julichs – Plaz“.

Nel 1806 infine, un altro Giovanni Maria Farina, nipote del primo, stavolta partì da Colonia per trasferirsi a Parigi: qui, con una sua nuova società, divulgò alla grande il profumo, chiamandolo “Eau de Cologne Jean Marie Farina“.

Da allora, grazie alle bottigliette dalla forma decisamente “napoleonica” e chiuse da un minuscolo tappo (le stesse tutt’ora in commercio) e contrassegnate dal numero 4711 (numero civico del negozio storico sito in Glockengasse, Colonia) l’Acqua di Colonia divenne l’odore ufficiale di cortigiani e sovrani di tutta Europa e fondendosi in seguito alla celeberrima casa Roger et Gallet, che sancì per sempre l’enorme fortuna del prodotto.

Dalle sue origini al periodo napoleonico, l’Acqua di Colonia ebbe molto successo perché considerata e pubblicizzata anche come un medicinale portentoso, capace di curare e preservare da ogni malattia, peste compresa.

In realtà, essendo a base d’alcol, le sue qualità potevano essere solo quelle di disinfettante della pelle; si trattava di periodi storici in cui l’igiene personale era considerata più o meno un optional e, quindi, l’Aqua mirabilis faceva in fondo e semplicemente le veci dell’acqua normale.

Nel 1810 però Napoleone Bonaparte, visto l’immensa diffusione che prodotto e la diffusa falsa credenza che si trattasse di una panacea, emanò un severo decreto imperiale in cui si proibiva di pubblicizzarla come farmaco, a meno che i produttori non ne rendessero pubblica la formula.

E visto che già allora erano già in moltissimi quelli che, ovunque in Europa, si erano messi a fabbricare decine e decine di ”vere e originali” acque di Colonia, piuttosto che svelare formule del tutto diverse si preferì da allora evitare di citarne le terapeutiche virtù.

In realtà quasi tutte le acque di colonia classiche tutt’ora esistenti sono costituite prevalentemente da essenze di agrumi (bergamotto, limone, arancio dolce e amaro), unite a varie altre erbe aromatiche quali rosmarino, timo, lavanda, citronella e melissa.

Ma della prima, originale ricetta, quella scritta sull’antica pergamena conventuale usata dall’emigrante vigezzino Fermis, purtroppo non se ne è mai più trovata traccia.

© Mitì Vigliero