La Mummia di Ercole e i Frati Giocherelloni

L’Ariosto, nel XXXVI canto dell’Orlando Furioso, narra l’eroica morte in battaglia del ferrarese Ercole Cantelmoil più ardito garzon che di sua etade/ fosse da un polo all’altro, e da l’estremo/ lito degl’Indi a quello ove il sol cade“

Egli era figlio di Sigismondo duca di Sora nonché generale delle truppe ferraresi del duca Alfonso I d’Este che combattevano contro quelle veneziane.

Era il 1509 ed Ercole, non riuscendo a domare il suo cavallo imbizzarrito, fu catturato dai nemici durante la battaglia della Polesella e – trascinato sull’alto scalmo d’una nave – decapitato sotto gli occhi disperati di suo padre.

Il duca Alfonso, in segno di stima e commozione per il dolore di Sigismondo, riscattò la salma di Ercole dai veneziani, fece ricucire la testa al corpo ; diede ordine che il Cantelmo venisse imbalsamato e che in seguito gli si facesse un funerale sontuosissimo e solenne.

Ferrara san francesco

Una volta pronta, la mummia del Cantelmo venne provvisoriamente posta nella chiesa di San Francesco a Ferrara; però mentre si attendeva – attesa durata circa 40 anni– il momento propizio per le solenni esequie, un violento terremoto semidistrusse la chiesa e i dintorni.
Così tutti ebbero altro a cui pensare e si scordarono definitivamente di Ercole.

Trascorsero 150 anni.

Un bel dì i frati decisero di restaurare la chiesa, e durante i lavori trovarono la cassa contenente la mummia del condottiero, di cui però ignoravano completamente l’identità; era perfettamente conservata e particolarmente imponente, dato che l’Ercole era un pezzo d’uomo alto quasi due metri.

E forse seguendo sin troppo alla lettera il motto francescano del “servire il Signore in letizia“, i novelli giullari d’Iddio iniziarono a trattare la mummiona come un pupazzo, divertendosi a vestirla in mille modi diversi, facendola sedere a tavola con loro e soprattutto divertendosi come pazzi a farle fare capolino di notte fuori dal convento per terrorizzare i passanti.

Nel 1668 giunse a Ferrara un tal don Jacopo Cantelmo di Sora, religioso discendente dell’illustre famiglia; egli, com’era di moda all’epoca, era un appassionato di antiquariato, archeologia e storia.

Ma quando gli venne detto che nella locale chiesa di San Francesco esisteva un’antica mummia sconosciuta, subito dopo la curiosità gli venne pure il vago sospetto che potesse trattarsi di quella del suo antenato.

Arrivò al convento proprio nel momento i cui i fraticelli stavano sbellicandosi dalle risate assistendo ad una commediola da loro organizzata che aveva come protagonista proprio il prode Ercole travestito da buffone.

Uscito momentaneamente fuori dalla grazia di Dio, un indignatissimo don Jacopo si lanciò in una sacrosanta predica riguardante il rispetto che i cristiani debbono portare ai corpi umani, anche se defunti.

Infine obbligò i frati a scusarsi col morto celebrandone – finalmente – solennissime e costosissime esequie e facendolo seppellire nella chiesa di San Francesco, di fronte all’altare di Sant’Antonio, dove ancora oggi riposa alfine in pace sotto un marmo ornato dalle sue armi e dall’iscrizione : “Hic jacet Hercules Cantelmus dux Sorae, qui obiit anno Domini MDIX“.

© Mitì Vigliero

Le Mummie di Palermo

640px-Women's_Corridor(foto Wikipedia)

I frati Cappuccini arrivarono a Palermo nel 1533 e si stanziarono in una piccola chiesa fuori le mura, Santa Maria della Pace.
Quando ingrandirono chiesa e convento, nel 1599, ampliarono anche la cripta e traslando le 45 salme dei confratelli  morti in quegli anni, si accorsero che erano rimaste incorrotte.
Ciò dipendeva sia dal particolare ambiente dei sotterranei, chiamati da allora genericamente “catacombe”, sia dal loro metodo di inumazione; i corpi venivano prima posti in una stanza detta “scolatoio”, su graticci di tubi di terracotta posti in doccioni di creta; serrata la porta, vi rimanevano quasi un anno.
Una volta prosciugati e seccati, si mummificavano, mantenendo capelli, pelle e cartilagini.

La voce si sparse, e furono moltissimi i siciliani nobili o altoborghesi che chiesero d’essere lì sepolti, convinti di sconfiggere in qualche modo la morte rimanendo – novelli semidei o faraoni – in qualche modo sempre uguali a come erano in vita, mostrando ai posteri  lo sfarzo degli abiti, la bellezza dei volti: monumenti perenni della loro superiorità sociale.

I frati perfezionarono il metodo di conservazione: dopo l’“essiccamento”, lavavano accuratamente i cadaveri con acqua e aceto o arsenico e calce in caso di epidemie, li rivestivano con gli abiti eleganti consegnati dalle famiglie e li attaccavano nella cripta tramite un gancio posto sul coppino o inchiodandoli ad assi di legno.

Sono circa 8000 i corpi imbalsamati e appesi ai muri di quelle stanze buie, lunghe e gelide; ottomila macabre parodie di quelli che un tempo erano stati principi, dame, baroni, distinti professionisti, alti prelati, colonnelli borbonici in divisa di gala.
Giovani, vecchi, bambini, uomini e donne che, nonostante le loro speranze e illusioni di terrena, eterna esistenza, la morte – sempre livellatrice – e il tempo – che non ha rispetto di nessuno – han reso tutti uguali.
Fantocci orribili avvolti in stracci bigi; maschere grottesche che non ispirano pietà, ma scherno, come esposti in una perenne gogna.
Un’enorme rappresentazione, una Caricatura della Morte.

C’è il generale garibaldino Giovanni Corrao, organizzatore e capo dei “picciotti d’Aspromonte”, assassinato nell’agosto del 1863 da un colpo di lupara; è in un feretro, lui, coperto da un lenzuolo, la barba folta e nera, il petto ancora villoso, una faccia furibonda.
Più in là la “cappella delle vergini”, con mummie femminili biancovestite come spose e appese al muro come scope; sopra di loro la scritta: “Seguono l’agnello ovunque vada: sono vergini”.
E il “reparto bambini”, con la visitatissima Rosalia e altre mummiette vestite come statue barocche di Gesù Bambino; e le donne, impilate in quelle che sembrano cuccette ferroviarie.
E poi Antonio Prestigiacomo, dongiovanni del suo tempo (‘700), il quale scrisse nelle ultime volontà che gli mettessero occhi di vetro per poter continuare a guardare le donne anche da morto.
E migliaia d’altri corpi allineati, ciondololanti, sdraiati in casse o ritti in teche di vetro…

Nel cimitero esterno del convento, terzo viale a sinistra, dal 1957 è sepolto Giuseppe Tomasi di Lampedusa; vedendo la sua normale tomba, dopo le mummie, è inevitabile pensare al finale del Gattopardo: il lancio dalla finestra dell’imbalsamato cane Bendicò, simbolo della defintiva caduta d’un mondo che fu.

© Mitì Vigliero