Partorire è sempre rischioso, ma nell’Italia rurale – sino alla metà del secolo scorso – era addirittura temerario grazie alle diffusissime usanze della medicina popolare.
D’altronde la prima scuola di levatrici professionali fu fondata a Torino alla metà del ‘700 e rimase l’unica per 30 anni; solo ai primi del XX sec. divenne obbligatoria la presenza d’un ostetrica diplomata nei paesi più popolati, ma la maggioranza di villlaggi e frazioni rimase scoperta.
Si diceva “son cose da donne”.
Infatti attorno al letto della partoriente s’affollavano solo femmine parenti o vicine di casa, capitanate dalla “mammana” il cui incarico le era stato dato dai compaesani perché mammane erano state sua madre, sua nonna ecc.
Innanzitutto occorreva creare un’atmosfera favorevole e priva di influssi negativi.
Perciò al momento del parto venivano buttate fuori di casa persone in lutto recente (Marche) o deformi (Lazio); sospetti menagramo (Campania);litigiosi e violenti (Friuli); donne di noto malcostume (Sicilia).
Bandita ovunque la presenza nella stanza di gomitoli e matasse: avrebbero rallentato il travaglio.
Tolte alla vista della quasi madre anche le pere (Ciociaria), ché con la loro forma avrebbero fatto “da tappo” al nascituro.
Graditissima invece (Sicilia) la presenza d’una persona che avesse attraversato, anche non a nuoto, per 3 volte lo Stretto di Messina, perché considerata fortunata: allora quello spesso era un viaggio a cui non era facile sopravvivere…
Alla luce di ceri accesi davanti al ritratto di Sant’Anna protettrice delle partorienti (mentre in Sabina le future madri recitavano in loop Santa Liberata fa che dolce sia l’uscita, come dolce fu l’entrata) iniziavano i metodi per lenire i dolori della partoriente.
Tra questi pettinarla (Veneto); darle da bere camomilla con olio bollente che “lubrifica” (Venezia); spargere ghiaia di mare sotto il letto (Sicilia); infilarle una scure sotto i piedi e bagnarle la parte “d’uscita” con acqua benedetta (Abruzzo); asciugarle il sudore con un drappo rosso (Ciociaria); gettare nel fuoco ulivo benedetto (Trevigiano); appenderle un ferro di cavallo al collo e sparare colpi di fucile in aria, si spera all’aperto, per spaventare gli Spiriti Maligni (Logodurese).
Si era convinti che, se la donna soffriva quei momenti, fosse colpa del maschio che l’aveva ingravidata; per questo nel Cagliaritano le assistenti al parto le mettevano accanto sul letto le braghe del marito, picchiandole e insultandole ferocemente.
Ma poiché si credeva l’uomo più forte nel sopportare il dolore, alla moglie venivano fatti indossare i suoi indumenti che in una sorta dimagico transfert avrebbero passato a lui gli spasmi.
Così la poveretta già in preda alle doglie veniva vigorosamente massaggiata con una camicia del marito (Romagna), strizzata in una sua cintura (Lazio), strozzata da un suo calzino messo attorno al collo (Veneziano), accecata da un suo cappello calcatole in testa sino al naso (Sicilia), soffocata da tutto il di lui guardaroba stesole addosso a mo’ di coperta (Comasco).
Nel Veronese il marito assisteva: suo compito era tenere fermo sul petto della moglie un piatto di stagno, così magari lei nella foga del dolore addentava quello anziché lui.
Se il travaglio durava troppo, andava a suonare le campane tirando la corda coi denti (Sardegna) così chi le udiva poteva formulare una preghiera d’incoraggiamento.
La mammana siciliana infine, esortava il nascituro a venir fuori recitando dolcissima e suadente:
Nesci nesci, Cosa fitènti,
ca lo cumanna Diu ‘nniputenti.
Veni fora e nun tardari,
ca a tò matri hai libirari.