La Val di Susa possiede un vasto patrimonio di leggende e tradizioni; fra quest’ultime (da me scovate in varie ricerche, anche consultando la “Storia della Val di Susa” di Michele Ruggiero, Editip, 1976) particolarmente curiose sono quelle dedicate agli antichi metodi di corteggiamento, che variavano da paese a paese e in molti casi rimasero in auge sino ai primi del secolo scorso.
A Salbertrand, in Alta Valle, le dichiarazioni venivano fatte il giorno di Santa Caterina; i ragazzi giravano in gruppo il paese suonando strumenti musicali, fermandosi sotto le finestre delle ragazze.
Queste, ciascuna al suo verone, s’affacciavano, e facevano entrare in casa il prescelto all’insaputa dei familiari: si sarebbero potuti sposare solo se egli fosse riuscito a restarci nascosto sino al giorno dopo, senza farsi beccare dal padre di lei.
Le ragazze di Mompantero, antico borgo di rudi valligiani ai piedi del Rocciamelone, nei dì di festa decoravano le gonne dei loro costumi con vezzosi nastrini rossi e azzurri; non erano bellurie feminee ma vere dichiarazioni dei redditi, visto che ogni fiocchetto indicava le migliaia di lire che ciascuna portava in dote.
I ragazzi da parte loro, una volta scelta la futura compagna – vuoi per numero di fiocchetti vuoi per vero amore – si dichiaravano romanticamente tirandole un sasso alle spalle; da qui il detto “a l’à tiraje l’roc”, “ha tirato la pietra”: una sorta di “dado è tratto”, insomma.
A Novalesa, alle falde del Moncenisio, il 25 marzo si dirottava il ruscello che nasce all’inizio del borgo, facendolo scorrere per la via principale; gli uomini si recavano nel parco della splendida omonima Abbazia dove raccoglievano ramoscelli di bosso: poi li bagnavano nell’acqua del ruscello e spruzzavano come in una pagana benedizione la fanciulla dei loro sogni.
L’amore scatena pettegolezzi, si sa; per questo a Chiomonte (fra Gravere ed Exille) gli innamorati non ancora ufficialmente fidanzati cercavano in ogni modo di tenere nascosto il loro sentimento, per evitare l’onta della “porà”: una striscia di segatura che univa pubblicamente le due abitazioni dei piccioncini.
Anche a Susa veniva usata; si chiamava “bernà” ed era di farina.
Anche il giorno del matrimonio veniva arricchito (o complicato, a seconda dei punti di vista) da curiosi rituali.
Per esempio ancora oggi, a Giaglione e Gravere, lo sposo prima di entrare in chiesa deve tagliare un nastro simbolico, ma un tempo il tapino si trovava il portone sbarrato da cumuli di masserizie, mobili e carri compresi (la “barricata”), che doveva sgombrare da solo.
A Meana e Mattie, infine, il futuro sposino prima di raggiungere la chiesa doveva spaccare in due con un unico colpo un grosso e nodoso ceppo di legno che gli amici affettuosi gli facevano trovare la mattina delle nozze di fronte all’uscio di casa, completo d’ascia.
Se la cosa non gli riusciva alla prima accettata, frizzi e lazzi l’avrebbero accompagnato per tutta la giornata, mettendo in dubbio la sua “forza e abilità” durante la fatidica Prima Notte.