Vi Racconto La Storia Del Fondotinta

Uno dei cosmetici più antichi utilizzato per uniformare la pelle e il colorito del volto possibilmente schiarendolo; almeno così impose la moda sino agli inizi del ‘900.

Gli Egizi sbiancavano le loro facce con la cerussa, ossia la biacca.

Romani invece mescolavano la biacca col guano, cacca fermentata di uccelli marini, ottenendo così un mostruoso strato duro e bianco del tutto simile all’intonacoMarziale negli “Epigrammi” sfotteva a questo proposito la matrona Fabulla, che si rifiutava di camminare sotto la pioggia per tema che la sua faccia potesse sciogliersi.

Invece Ovidio era a favore dei visi imbiaccati; nell’”Ars Amatoria” scriveva: “Ogni amante sia pallidoquesto è il colorito adatto a chi ama”, e nel suo trattato “Medicamina faciei” dava anche la ricetta di un fondotinta schiarente di sua invenzione i cui ingredienti erano orzo, lenticchie, uova, corna di cervo, bulbi di narciso, farro e –ovviamente- cerussa.

Anche nel 1300 un viso era considerato bello solo se bianchissimo; perciò le signore si spalmavano sul volto grandi quantità di dense creme ottenute mescolando ossido d’argento e di mercurio a grasso animaleburro compreso.

Nel Rinascimento si usava il “lustro”, a base di Trebbiano, vino usato a Firenze nella Farmacia di San Marco e nella Fonderia di Cosimo de’ Medici.

Nel ‘700, in risposta all’ideale aristocratico che imponeva pelle color madreperla col blu delle nobili vene posto in evidenza da particolari matite morbide a base di lapislazzulo, dame e cavalieri  s’incalcinavano il sembiante con lucidissime pomate collose composte di olii, burro di cacao e farine, chiudendosi poi in stanzine apposite per spolverizzarci su chili di cipria formata con polvere d’amido e talco;  il Parini, nel “Giorno”, a proposito di questa abitudine del Giovin Signore, scrive:

Ecco che sparsa
pria da provvida man la bianca polve
in piccolo stanzin con l’aere pugna,
e degli atomi suoi tutto riempie
egualmente divisa. Or ti fa cuore,
e in seno a quella vorticosa nebbia
animoso ti avventa.

Per tutto l’Ottocento furoreggiarono il visi pallidi, nella convinzione che un incarnato diafano esprimesse nobiltà non solo di stirpe ma pure d’animo; solo i popolani e i contadini esibivano facce colorite causa esposizione al sole e una damigella perbene sarebbe stata ben poco credibile nei suoi svenimenti se avesse sfoggiato due gote rubizze.

Il pallido poi richiamava la Luna, l’anelito dello Sturm und Drang, la sofferenza wertheriana; così continuarono a imperversare sulle toelette delle signore i “belletti bianchi”, micidiali composti di piombo e bismuto, o mandorle amare e sublimato corrosivo, ingredienti questi che mescolati assieme formavano il bicloruro di mercurio, base del cianuro.

Fortunatamente quella gran dittatrice chiamata Moda, dal primo ventennio del Novecento annunciò finalmente che un colorito naturale –socialmente opposto a quello cadaverico dato dalla tisi, diffusissimo mal dell’epoca- fosse simbolo di salute, vivacità, sensualità ed “ésprit”; da quel momento i fondotinta divennero colorati e soprattutto, per nostra fortuna, composti da ingredienti molto più innocui.

© Mitì Vigliero

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Breve Storia del Reggiseno

 

Le donne si sono coperte il seno sin dai primordi della civiltà umana; all’inizio lo facevano non per pudore, ma per proteggerlo  e soprattutto per poter assorbire il latte nel periodo dell’allattamento.

Le greche, durante le manifestazioni sportive usavano l’ ‘”apodesmo“, stretto bendaggio avvolto attorno alle mammelle, che serviva ad impedire che ballonzolassero durante le corse.

A le fanciulle etruscheromane si strizzavano in larghe fasce – dal poco romantico nome di “taenia”- con l’intento (e l’illusione) di far crescere poco il seno e mantenerlo piccolo, come imponeva la moda allora.
Ma dato che alla natura non si comanda, arrivavano regolarmente a costringere gli inevitabili tettoni col “mamillare“, un corpetto di rigido cuoio.

Le cortigiane romane invece  avevano capito subito che il reggiseno poteva essere un utile strumento di seduzione e indossavano uno “strophium” fatto di sciarpe peccaminosamente trasparenti che il poeta Marziale definiva “trappola cui nessun uomo puo’ sfuggire, esca che riaccende di continuo l’amorosa fiamma”.

Le atlete dei giochi nautici esibivano l’antenato del due pezzi, il “subligaculum”, esemplari dei quali si possono vedere nei mosaici di Piazza  Armerina.

Nel 1200 , soprattutto nel Nord Europa, c’era il  “pelicon“; un corpino portato  tra sottoveste e vestito, spesso imbottito di pelliccia come malizioso richiamo amoroso.

Dal ‘300 la malizia esplose un po’ troppo; Dante si sdegnava con le donne fiorentineche van mostrando con le poppe il petto” e nel 1342 i legislatori perugini proibirono le scollature “dalla forcella de la gola en giu’“.

Ragusa il Sacchetti descriveva le sue sfacciate conterranee che andavano “in giro con capezzale tanto aperto da mostrar piu’ giu’ che le ditelle (le ascelle)” e anche le milanesi non scherzavano; è del 1498 un editto in cui si vieta alle scollature di scendere “non oltre un dito della mano sotto la fontanella della gola” . E conoscendo le donne, veniva anche precisato che  “detto dito s’intende di traverso“, non in verticale.

Tra i sec. XV e XVI, per pudore religioso ma ancor di più per moda che voleva solo aspetti ascetici e regali, i seni scomparvero, appiattiti come pizzette sotto bende spesse.

Alla fine del ‘600 però iniziarono a diffondersi i “corsetti” che imperversarono per tutto il ‘700 e l’ ‘800 divenendo i sexyssimi ma famigerati “busti“.

 

Quella che doveva sparire era la pancia: in compenso le mammelle si dovevano mostrare eccome, spinte all’insù da busti corazzati con stecche di balena e ferro.

 

Quando non svenivano per lo stritolamento delle stecche, le dame d’allora ansimavano sempre un po’ causa difficoltà di respiro date dalle stesse: così i poeti d’allora cantavano “i palpitanti cor”, utilizzando ovviamente la romantica parola “cor” come metafora.

Fu solo nel 1911 che una ricca miss americanaMary Jacobs, sfoggiando di giorno al Lido di Venezia estrosi (per allora) completi pantalone che lasciavano scoperto il pancino e la sera trasparentissimi abiti lunghi che non potevano essere indossati col busto, cucendo insieme due foulard di seta, imbottendoli d’ovatta causa scarsità di materia prima sua e cucendo due fettucce come spalline, inventò il reggiseno vero e proprio.
Da pratica fanciulla made in USA, tornata in patria due anni dopo brevettò l’idea, divenendo più ricca che pria.

© Mitì Vigliero