Quando si parla di Gavi Ligure, si pensa subito al vino; però la cittadina merita di passare alla storia anche per un altro importante e delizioso prodotto gastronomico italiano.
Nel XII sec. Gavi era terra di frontiera, passaggio obbligato dei trasporti fra Liguria e il resto dell’Italia settentrionale; i mercanti sostavano abitualmente a mangiare e dormire nelle numerose locande del paese la cui più famosa era l’“Hustàia du Raviò”, proprietà della famiglia Raviolo che fu la prima a brevettare ufficialmente quella pasta ripiena chiamata appunto “ravioli”.
Nel 1202 Gavi passò sotto il dominio della Repubblica Genovese e i ravioli divennero uno dei piatti più amati dalla Superba che in seguito li esportò, oltre che in tutta Italia, anche in Provenza, Corsica e America del Sud.
E quando nel 1528 una parte della famiglia Raviolo si traferì a Genova, venne ascritta alla nobiltà e scelse come stemma una forma per ravioli sormontata da tre stelle.Forse però non tutti sanno che i ravioli, nella loro storia, sono stati spesso strettamente legati all’Arte.
Ad esempio, il pittore Giambattista Gaulli detto Il Baciccio, impegnato a Roma dal 1669 al 1683 a decorare la Chiesa del Gesù, tirava fuori l’”estro inventivo” soltanto se il committente, il padre generale dei gesuiti Paolo Oliva, gli faceva trovare ogni santa mattina ad attenderlo sulle impalcature poste all’interno del tempio, un’enorme e bollente porzione di ravioli , l’unica cosa – secondo l’artista – “capace di dissolvere l’acre atmosfera dell’acqua ragia e dei colori”.
Invece Niccolò Paganini, nel 1838 scriveva nostalgico all’amico Luigi Germi:
“Ogni giorno di magro e anche di grasso, sopporto una salivazione (l’aquolina in bocca, ndr) rammentando gli squisiti ravioli che tante volte ho gustati alla tua mensa”.
E nel 1840, pochi giorni prima di morire, da Nizza Marittima trovava la forza di scrivere entusiasta ad un amico la “sua” ricetta dei ravioli, citata ormai come classica dai sacri testi della storia gastronomica.
Infine i ravioli furono protagonisti anche del Futurismo.
Nel 1931 Marinetti sconvolse l’Italia e gli stomaci italiani col “Manifesto della cucina futurista“, dove per prima cosa (causa l’allora carenza di grano in Italia, che veniva importato carissimo dall’estero) riteneva necessaria “l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica” la quale, digerendosi in gran parte in bocca e non facendo lavorare pancreas e fegato, sviluppava nelle italiche menti “scetticismo, sentimentalismo, fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo“.
Ciò scatenò la rivolta nel genovese gruppo futurista “Sintesi”, tanto che Farfa, Gaudenzi, Picollo, Lombardo, Pierro, Verzatti, Lo Duca, Tullio D’Albissola e altri, il 15 gennaio del ’31 scrissero un’accorata supplica al Marinetti nella quale, pur accettando di dichiar guerra a “maccheroni, vermicelli, spaghetti e tortellini” chiedevano “fermamente” una dichiarazione di “leale neutralità verso i ravioli, ottimistici propulsori dinamici per i quali nutriamo profonde simpatie e doveri di riconoscenza e di amicizia”.
Marinetti si convinse ed il raviolo, che Farfa (Vittorio Tommasini) definì “carnale lettera d’amore in busta color crema”, si salvò così dal Progressimo rimanendo uno dei capisaldi dell’italica cucina.
Da leggere anche: Cucinieri Futuristi nella Genova Anni Trenta