In Liguria si chiama “Pasquetta” l’Epifania; quello dopo Pasqua è invece è il Lunedì dell’Angelo, e sino alla prima metà del Novecento per i Genovesi di ogni età e ceto sociale, era rigorosamente dedicato al divertimento all’aria aperta.
Infatti, se non diluviava, si andava tutti a far ribotta fuori città.
“Far Ribotta” significa in generale gozzovigliare, far baldoria, mangiando e soprattutto bevendo in buona compagnia.
Così centinaia di comitive di amici e parenti carichi di canestri, fagotti e sacchetti colmi di avanzi del pranzo Pasquale, vestiti gli uomini con le braghe bianche d’ordinanza primaverile, partivano da casa dirette verso i prati più vicini.
E in molti casi erano vicini davvero, visto che quasi tutte le alture attorno a Genova, e che ora fan parte integrante della città, a quei tempi “eran tutta campagna“. (1)
I Sampierdarenesi si recavano al Santuario del Belvedere o verso il Cucco.
I Sestresi preferivano l’Acquasanta, le Giutte o San Carlo di Pegli.
I genovesi del centro città andavano a ribottare sui prati che allora circondavano la chiesa di San Bartolomeo degli Armeni o su quelli dello Zerbino dietro Piazza Manin.
Altri su quelli di Granarolo o Quezzi; altri ancora sui prati dell’Erta di Coronata (vicino ai Pacciughi), la Madonna della Guardia, Sant’Eusebio, e col trenino a Casella o Sant’Olcese.
Oppure si andava all’Osteria del Sciancabrasse che si trovava nel primo tronco di Via Cabella; da Richetto e alle Baracche sul Righi; da Mattelin a Coronata o nelle tante piccole trattorie sparse fra un verde ormai dimenticato.
Qui, sui tavoli di legno, era possibile consumare il pranzo che si portava da casa, ordinando all’oste solo il vino e le immancabili fave e salame.
Ma i più prediligevano la Madonna del Monte, detta sbrigativamente Il Monte, e a Pianderlino, il celeberrimo Cianderlin cantato da Nicolò Bacigalupo:
L’ea de rito, l’ea de regola,
De tià a mezo e braghe gianche,
D’andà a-o Monte, a fà baldoria,
Co-a frità in to cavagnin,
D’andà in bettòua pe petrolio
E pe scigoue in Cianderlin.
Era di rito, era la regola,
indossare le brache bianche,
andare al Monte a fare baldoria,
con la frittata nel cestino,
andare all’osteria per il petrolio (vino),
e per zufoli in Pianderlino
Le scigoue (pron scigue) erano sorte di pifferi fabbricati con le canne che si trovavano in quei luoghi: una versione semplificata della siringa di Pan, dio dei boschi e di quei prati che si riempivano di sciami di persone allegre e vocianti, che stendevano sull’erba vecchie coperte e tiravano fuori dai cavagnin fette di Torta Pasqualina, uova sode, costine d’agnello da mangiare con due dita, carciofi fritti, cima, canestrelli…
E poi chitarre e fisarmoniche, per accompagnare cori e balli mentre i bambini correvano e saltavano infaticabili in giochi continui, e le nonne camminavano chinate sull’erba a raccogliere pimpinella, ortica, tarassaco, borragine, tutti i componenti del prebuggiun, che sarebbe finito in fantastici ripieni o insalate e minestre.
Al tramonto si tornava in città con le sporte vuote di cibo, ma colme di fiori e di erbe selvatiche e qualche bottiglia di quello buono comprato dall’oste.
Genovesi spiegazzati, spettinati, stanchissimi; qualcuno, grazie alle varie ribotte, forse trovava qualche difficoltà nell’imbroccare con la chiave la serratura del portone di casa… (Provateci un po’ voi! ;-)
Però avevan tutti le facce rilassate e allegre di chi – senza aver speso patrimoni o affrontato stressanti code in autostrada – era riuscito a trascorrere “in campagna” la prima vera giornata di primavera.
(1) Tanto per darvi un’idea dei luoghi, ecco alcune vecchie immagini trovate in questo splendido sito.
Quezzi era così
e ora è così
E se Corso Firenze alle falde del Righi era così (io abito alla destra di quella chiesa sulla destra)
ora è così (la chiesa è quella sull’estrema destra)