Ogni tanto le cronache riportano notizie di animali selvaggi che salvano gli umani; ad esempio, quella della gorilla che ha salvato un bambino di tre anni precipitato nel serraglio di uno zoo americano fece il giro del mondo.
Gli animali sono migliori degli uomini, è stato il grido unanime, commosso d’entusiasmo.
E si sa che l’entusiasmo per un grande amore (come quello che alcuni nutrono verso gli animali) spesso può far sragionare: ad esempio io, da questo punto di vista, sragiono molto.
Ma la logica ci insegna che gli animali sono innanzitutto dominati dall’istinto, e l’uomo dalla ragione; indubbiamente la ragione umana, guidata dal libero arbitrio, può far compiere al bipede implume azioni aberranti e crudeli: per questo l’umana Giurisprudenza impone che l’uomo delinquente venga, in casi come questi, sottoposto a processi in tribunale.
Però forse non tutti sanno che, per secoli, gli uomini ragionevoli giudicarono gli animali esattamente uguali a loro, ragione e morale comprese; perciò, quando una bestia si macchiava di un delitto, l’Uomo la sottoponeva a processi esattamente identici ai nostri.
Chi si distinse nel dare agli animali umane responsabilità criminali fu il Medio Evo, tramite giudizi, processi, sentenze e supplizi terrorizzanti.
La berlina, la fustigazione, il rogo, l’impiccagione e la mannaia servirono non solo come mezzi di punizione di delinquenti uomini, ma anche di bestie che cercavano di sfuggire alle leggi di obbedienza, lavoro e rispetto al loro re o al loro padrone.
Il primo processo documentato risale all’anno 864, quando la Dieta di Worms condannò uno sciame di api che aveva assalito un uomo uccidendolo, ad essere giustiziato con la pena dell’ “affumicamento”.
E grandi giustizieri di animali colpevoli furono i Franchi: Carlomagno, nei suoi Capitolari, fu estremamente severo con le bestie degeneri, soprattutto quando tramite esse venivano ripetute le gesta di Pasifae o Leda: la loro carne veniva distrutta, arsa, buttata ai cani o fatta a pezzi nelle pubbliche vie.
Si pensava che gli animali “seduttori di uomini” fossero infestati da demoni, e i demoni non meritavano ovviamente alcuna pietà: dal 1692 al 1693 a Salem, una piccola comunità agricola a pochi chilometri da Boston specializzata nell’arrostire streghe, oltre venti persone accusate di stregoneria vennero giustiziate insieme a più di cinquanta fra cani, gatti, conigli, capri, pecore, galline, galli, corvi, merli che avevano in comune il colore del pelo o delle penne: erano tutti neri e, secondo gli inquisitori, l’animale nero di sicuro celava o un diavolo o una maliarda.
Sempre con l’accusa di stregoneria nel XVI secolo in Scozia venne bruciato un cane, mentre nel 1476 a Basilea un gallo svizzero colpevole di aver deposto un uovo “sfidando arrogantemente le leggi di natura”, condannato a morte fu arso vivo “quale diavolo sotto mentite spoglie”.
Accusato di lussuria satanica a Parigi, nel 1549, un tal Guyot Vuide fu prima impiccato e poi bruciato sulla pubblica piazza assieme ad una mucca sua amichetta e la stessa cosa accadde a un certo Jean de Salle, messo al rogo nel 1566 legato al suo asino.
Simile destino ebbero infine diverse cagne, una delle quali a Lione fu bruciata in effigie dopo essere stata condannata a morte “in contumacia”.
Atroci supplizi erano riservati ai maiali accusati di antropofagia; nel 1336 il giudice ordinario di Falaise condannò una scrofa prima a essere mutilata a colpi di mannaia di una zampa anteriore e del grugno, applicando così la legge del taglione dato che aveva morsicato la sua vittima al braccio e al volto, poi a essere appesa alla berlina.
E prima di essere condotta al supplizio, fu come d’uso vestita con abito da uomo, panciotto e cappello compresi: il suo boia (lo stesso usato per gli umani)venne pagato come al solito con dieci tornèsi e un paio di guanti.
In Normandia, nel 1394, un maiale fu impiccato per aver divorato un bambino; stessa sorte accadde nel 1547 ad una scrofa e i suoi sette porcellini solo che mentre la scrofa venne giustiziata, i piccoli furono risparmiati “a causa della tenera età” e “perché vittime del cattivo esempio dato dalla madre”.
Pene di morte anche per le bestie assassine: un toro colpevole di aver incornato mortalmente il suo padrone venne impiccato a Noisif le Temple addirittura per sentenza di Carlo di Valois; nel 1606 nella Piazza del Mercato di Napoli fu giustiziato un asino accusato di aver massacrato a calci una bambina e nel 1639, nella Val Leventina, un cavallo fu decapitato per aver disarcionato e ammazzato il suo cavaliere.
La cosa più sconcertante è che i processi agli animali delinquenti, che durarono sino ai primi del XVIII secolo e che venivano chiamati col termine legale di Processi Brutali, erano in tutto e per tutto identici a quelli umani; c’era il mandato di arresto, il carcere preventivo, la traduzione in giudizio, l’escussione delle prove e la requisitoria.
Gli avvocati difensori si davano molto da fare: nel 1499 in Germania il processo ad un orso reo di vandalismo (aveva devastato alcuni villaggi), fu differito di qualche mese a causa di un cavillo legale tirato fuori dall’avvocato difensore il quale serissimo affermò che l’animale aveva “il sacro diritto di essere giudicato dai suoi pari”, ossia da una giuria composta esclusivamente da orsi.
Innumerevoli furono i processi in contumacia intentati dagli uomini contro gli animali nocivi; nel 1519 a Stelvio alcuni contadini denunciarono delle talpe ree di “danneggiare i raccolti con i loro scavi, che impediscono all’erba e agli ortaggi di germogliare”. L’onorevole Giuria allora impose alle talpe “di giustificare la propria condotta, adducendo reali motivi di esigenza e di bisogno” ma, dato che le bestie non si presentarono in tribunale, vennero condannate all’esilio: tuttavia la Corte misericordiosa concesse un salvacondotto aggiungendo “due settimane di tolleranza per le imputate che risultassero gravide e per quelle ancora in infanzia”.
Uno dei processi più incredibili contro animali delinquenti avvenne in Valtellina nel 1659 quando alcuni vermi (di specie non ben specificata) furono citati in tribunale con l’accusa di “violazione di proprietà e danneggiamenti”; all’albero più alto dei cinque paesi in cui si erano verificati i danni, venne inchiodata una copia della citazione in cui veniva imposto agli imputati di “rientrare immediatamente nei boschi astenendosi dal danneggiare i raccolti”. Inoltre il tribunale concesse ai vermi “il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità purché la loro condotta non distruggesse o menomasse la felicità degli uomini”.
A Magonza a e Valenza vi furono processi contro mosche e pidocchi mentre, nel 1587, i viticultori dell’Alvernia intentarono una causa contro i bruchi che distruggevano le vigne: gli imputati, difesi da un emerito avvocato indubbiamente di molto merito, riuscirono ad ottenere per sentenza una “zona di rifugio” e il tribunale concesse alle larve delle cantaridi infestatrici “gli stessi benefici dei minori d’età”.
Ma il miglior difensore della classe animale fu senz’ombra di dubbio l’avvocato Barthèlemy de Chassenée; nel 1521 gli agricoltori di Artun denunciarono alcuni topi che avevano distrutto i loro raccolti d’orzo: i roditori, che non risposero né all’appello né ai numerosi bandi che ad essi fece la Corte, vennero difesi dal loro avvocato d’ufficio il quale dichiarò che “la citazione non era valida poiché avrebbe dovuto essere estesa a tutti i topi del distretto”.
Quando un’ulteriore citazione a comparire rimase ignorata dall’intera razza rosicante, Chassenée sostenne che “una torma di gatti ostili, appartenente ai contadini accusatori, intimidiva i suoi clienti”: perciò pretese una cauzione in denaro la quale garantisse che i gatti non avrebbero molestato i topi mentre si recavano in tribunale.
L’accusa rifiutò di pagare la cauzione e, con un’arringa memorabile in favore della benemerita classe roditrice, l’avvocato non solo riuscì a far assolvere gli imputati con dichiarazione di “non luogo a procedere” ma, grazie alla fama ottenuta in seguito a ciò, venne trionfalmente eletto Presidente del Parlamento di Provenza.
Intorno al 1570, una comunità di monaci francescani residente nello stato brasiliano di Maranhao accusò alcune termiti di papparsi le provviste e disintegrare gli antichi mobili del convento: anch’esse ebbero diritto a un avvocato difensore e furono fortunate perché egli rammentò alla Corte non solo che l’operosità delle termiti era mille volte superiore a quella dei francescani, ma anche che questi avrebbero dovuto vergognarsi e prenderne esempio.
Dopo molte udienze il Giudice formulò un verdetto di compromesso, leggendolo solennemente ad alta voce di fronte alle tane fatte a monticello delle termiti: entrambe le parti dovevano impegnarsi a mantenere una buona condotta, le termiti smettendola di infastidire i frati, ed i frati non molestando le “operose antiche residenti”.
Secondo i numerosi studiosi di “delinquenza animale” come Ferdinando Russo o Carlo D’Addosio -i quali, dalla fine dell’Ottocento ai primi del Novecento, dopo molte indagini svolte nei polverosi archivi dei tribunali, diedero alle stampe saggi e ricerche accurate sull’argomento- molte bestie sono affette da sindromi delittuose innate: le chiocce possono macchiarsi di infanticidio nei riguardi dei loro stessi nati; ladri sono i gatti così come le volpi, che utilizzano la loro proverbiale astuzia per compiere furti con destrezza: difatti pare che fingano di essere morte per eludere la sorveglianza dei padroni dei pollai.
E uno dei “criminali” più famosi in campo animale fu un cane di Rennes di cui parla anche il Lombroso: di giorno stava quieto e tranquillo senza mai uscire dal cortile e indossando la museruola, ma di notte se la toglieva e andava a far razzia nelle stie e negli ovili sino a quando arrivava l’alba: allora andava a lavarsi il muso sporco di sangue in una fonte, si rinfilava la museruola e riprendeva la sua aria placida e un po’ annoiata di sempre.
Ma tutti i naturalisti sono d’accordo nel dichiarare che, nonostante la gorillona americana, gli animali in assoluto più pestiferi, dispettosi, vandalici e rissosi siano proprio le scimmie: forse perché assomigliano moltissimo all’uomo.
©Mitì Vigliero
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