Quando non c’era la lavatrice

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(Lavandaie 1956 di Nino Migliori)

L’acqua corrente nelle case fu in molte zone d’Italia un sogno irrealizzabile sino all’abbondante metà degli  anni ’50-60; dopo, pure il possedere la lavatrice fu spesso sogno reso irrealizzabile dai costi proibitivi che ebbe sino agli inzi del 1970.

Fare il bucato, visto anche il numero dei componenti delle famiglie di allora, era quindi per le donne un lavoro massacrante, svolto in parte in casa e in parte ai pubblici lavatoi.

Si sbrigava ogni settimana/mese quello “minuto” e solitamente in primavera quello “grosso”, perché fiumi e lavatoi non erano più ghiacciati ma pieni d’acqua scrosciante dovuta al disgelo, mentre in estate capitava che fossero vuoti causa siccità.
Quindi la “grossa” biancheria sporca (lenzuola, asciugamani, traverse, tovagliati ecc, tutti rigorosamente bianchi) veniva conservata anche per mesi ammucchiata in un locale apposito della casa.

Venuto il gran giorno, si prendeva un bigoncio grande quanto una vasca a sedere, si posava su un alto treppiedi di legno con sotto un secchio, si disponeva la biancheria sudicia a strati, pezzo per pezzo, la più piccola in fondo e la più grande sopra.

Il cumulo veniva pigiato fortemente, facendo in modo che non rimanesse alcun vuoto; poi veniva coperto con un drappo di tela fortissima e su questo si spargeva cenere di legna in quantità proporzionale a quella del bucato: infine, sulla cenere, si versavano litri e litri d’acqua bollente.

Dopo un po’, da un foro posto sul fondo del bigoncio – da qui il termine “bucato” – usciva e cadeva nel secchio un liquido marrone denso e nauseante detto ranno o, orrendamente, “sugo di lenzuola“; l’operazione veniva ripetuta più e più volte sino a ottenere un ranno limpido.

La biancheria fina (colli, polsini, sete, pizzi) invece era fatta bollire a parte con scaglie di sapone di Marsiglia, mentre le “flanelle della pelle” (magliette, mutande e calze) venivano prima immerse in una miscela composta da 2 cucchiai di farina ogni 2 litri d’acqua e succo di limone che sgrassava e toglieva “l’odor d’acido” (sic).

La biancheria bagnata veniva trasportata con gran fatica al fiume o al pubblico lavatoio per essere rifinita e sciacquata; poi strizzata e infine stesa ad asciugare.

L’Enciclopedia Pratica Bompiani (1938) alla voce “Norme per lavare” suggeriva in città, al posto del bigoncio e per chi aveva l’acqua corrente, l’uso delle “lisciviatrici”, antenate delle lavatrici che potevano essere utilizzate sui fornelli di cucina: recipienti cilindrici, muniti d’un coperchio e di un doppio fondo mobile a forellini sollevato dal fondo.

La biancheria grossa prima doveva essere messa a mollo 12 ore insieme a 200 gr di sapone, 12 di ammoniaca, 12 di trementina, 50 di borace ogni 12 l d’acqua.

Poi strizzata e messa sul fuoco a bollire con 100 gr di soda nella lisciviatrice, che però ne conteneva ben pochi pezzi e quindi la manovra doveva essere ripetuta più e più volte volte.

Ma l’Enciclopedia concludeva trionfante che, grazie alle lisciviatrici, “in passato il nostro bucato voleva a disposizione più di una settimana; oggi non più di 3 giorni”.

© Mitì Vigliero

Corollario

Immagini lavatoi pubblici:
Sui Navigli di Gaggiano (14 km da Milano); Truogoli di Santa Brigida  (qui quando funzionavano) (Genova); Navigli a Milano; Navigli a Milano2 (grazie a Wolly); Elba; Sassaia (Biella); Lanciano (Chieti)

Curiosità:
Chiavari e dintorni, Luca
La cofanata, Angela
Trasporto bucati al fiume Melfa, MimosaFiorita
I lavatoi dell’Elba, Roger
La lavatrice tedesca del 1959 e i drammi del sapone, Fran(cesca)
L’enorme Candy dei primi del ’60, Rosidue
Sfacelo delle famiglia? Colpa dei bucati moderni, Pievigina
Bucati in Veneto, Rosy
Bucati in Romagna, Cristella

Update

Per la Storia della Lavatrice (semprebenedettasia), leggere il bellissimo articolo di Anna Meldolesi “Non lavo dunque sono