Non mi riferisco a quelli nobiliari o di studio, ma ai titoli delle cosiddette opere d’ingegno; canzoni, opere, commedie, libri.
Parliamo di questi ultimi.
Innanzi tutto dovete sapere che la cosa più difficile dello scrivere un libro non è tanto scriverlo, quanto intitolarlo.
Il titolo è fondamentale: deve essere facile da ricordarsi, semplice a comprendersi, stuzzicante, divertente, curioso, illuminante.
Quando scrissi per la Rizzoli Lo Stupidario della Maturità ebbi il merito (o il demerito, fate vobis) di consacrare un termine che non solo diede vita ad un’interminale sequela di altri Stupidari riguardanti i più vari argomenti, ma di “ufficializzare” una parola entrata poi a tutti gli effetti nel linguaggio comune (…E mannaggia, potevo brevettarla in esclusiva eh?).
Ma Stupidario l’avevo chiamato sin da quando era solo un immenso fascicolo di appunti miei privati, raccolti in anni e anni di scuola.
E così è stato pertutti i miei altri libri; prima l’idea, poi il titolo, infine la stesura.
Tranne per uno.
Quando, ancora nel secolo scorso, consegnai alla Mondadori un perfetto manoscritto di 190 pagine riguardante le scuse umane, non avevo in mente nessun titolo in particolare e per trovarlo feci più fatica che scriverlo.
Prima pensai a: Tutte scuse!, Caduti in pretesto, L’Inventascuse, L’Acchiappascuse e Il Cercascuse.
Mio fratello propose Scusami, ma…; mio padre Italiani che si scusano o Le scuse degli italiani che si scusano, mentre vicini di casa molto intellettuali mi consigliavano titoli grondanti cultura classica quali Profasìsomai (“Accampare scuse”), De excusatione, opera omnia e Apologia (“La Difesa”), che sarebbe stato perfetto se non ci avesse già pensato quel grafomane di Platone.
Amici poeti mi proposero di inventare un titolo che non c’entrasse un tubo con l’argomento, ma che fosse altamente aulico come Le bianche farfalle dell’Oklahoma.
Mia madre invece, adducendo il fatto che i pretesti e le scuse quasi sempre altro non sono che semplici menzogne, frottole, fandonie, bubbole, fanfaluche, insomma balle o palle che dir si voglia, mi suggerì Il Raccattapalle.
Nel frattempo io sfornavo Il Prontuario dei pretesti, Il Vademecum della giustificazione, L’Enciclopedia della discolpa, Il Galateo delle scuse, T’insegno a scusarti, L’ABC della scusa.
Alla fine scrissi tutti i titoli su dei bigliettini, li infilai in un cappello e feci pescare a caso dall’Editor.
In tal modo ebbi anche l’ottima scusa di non scrivere la solita prefazione del libro (cosa che odio fare) ma di usarla per raccontare questa storia, concludendola così: “Quindi se questo titolo non piacerà, sappiate che non è stata colpa mia, ma del Fato.”
Per facilitare la lettura dirò, in poche parole, che si tratta della storia di una famiglia fermamente decisa ad abbandonare l’inquinata, fracassona e caotica città, per trasferirsi nell’avita Casa di campagna.
I personaggi qui citati sono Bianca, la narratrice. Suo marito Leo, il vero maniaco della campagna. Camilla, la loro figlia settenne. Zia Rachele, che li aiuta nell’impresa. Ginotta, l’anziana custode della Vecchia Casa.
*
“Come fa quella poesia sulle campane? Mi dicono dormi, sussurrano dormi, bisbigliano dormi, maledizione suonano ogni quarto d’ora e non mi lasciano dormire…” ringhiavo di notte girandomi nel letto come una trottola. Quello era un paese di ottocento abitanti in cui esistevano, fra chiese, chiesette, cappelle, cappellette e cappelline circa quindici campanili, ciascuno dotato di una spiccata personalità.
C’erano quelli Equilibrati, che battevano regolarmente i quarti d’ora, le mezz’ore e le ore. Poi c’erano i Follattoni, che a ogni ora battuta facevano seguire uno scampanio inconsultamente brioso, seguiti dai Depressi, che precedevano ogni ora con un lugubre battito a morto. Infine venivano i Confusionari, che alle dieci battevano cinque colpi, alle cinque due colpi e un tocchetto, a mezzogiorno ne sparavano trentasei.
Di notte, per fortuna, restava in funzione solo il campanile della Chiesa Grande il quale, però, pur essendo di solito un Equilibrato, possedeva un’irritante caratteristica: quand’ero a letto insonne nel cuore della notte e per puro masochismo avrei voluto sapere che cavolo di ore fossero, lui – che sino a poco prima m’aveva assordato – improvvisamente taceva. “Si comporta così perché è gentile e vuole che ti addormenti col silenzio” diceva Leo. Infatti, appena riuscivo ad assopirmi, quello festeggiava l’avvenimento ricominciando a scampanare veemente e entusiasta.
Ma se al suono dei sacri bronzi, col tempo, ci si può far l’abitudine, esistevano altri notturni baccanali ai quali fu per noi assolutamente impossibile assuefarci.
Ricordo la prima estate trascorsa in Casa; un luglio torrido e canicolare in cui era vitale dormire con le finestre spalancate. E ogni notte che Dio mandava in terra, venivamo svegliati dal passaggio di enormi, smisurati ma velocissimi autoarticolati con tanto di scritta “trasporto eccezionale” i quali avevano scoperto che, tagliando per il paese, riuscivano a risparmiare un po’ di chilometri.
Nessuno può immaginare il rumore tremendo che emettono quei bestioni quando transitano fuori dalle autostrade: sembrava un terremoto ogni volta e dato che erano immensi, passavano a pelo tra le case. Inoltre, se i più lunghi s’incastravano con regolarità nella stretta curva che conduce alla provinciale, i più alti sradicavano ogni volta il balcone della casa di fronte alla nostra. Una notte uno di quei giganti che trasportava un carico di maiali vivi, sbagliò la curva della piazza e andò a schiantarsi contro la facciata del Comune; i poveri suini si seminarono impazziti dal terrore per tutto il paese, tranne due che rimasero defunti in mezzo alla strada. I setolosi cadaveri scomparvero subito e, qualche tempo dopo, nel negozio della Franca vi fu una vendita straordinaria di salsicce, costolette, lardo e cicciolata a ottimi prezzi.
Un’altra volta, era settembre, alle due del mattino ci svegliammo di soprassalto a causa di un terrifico nonché misterioso rumore.
Quella sera zia Rachele, causa il maltempo, era si era fermata e dormire da noi; perciò ci trovammo simultaneamente tutti e quattro in preda al batticuore, affacciati alle finestre delle nostre rispettive camere.
Il frastuono proveniva dalla curva che portava al torrente e avanzava tumultuante, minaccioso, amplificandosi con rapidità.
”E’ straripato il torrente” urlai tentando di superare il fragore lacerante “Le acque d’un torrente potranno forse muggire, ma di certo non suonano tamburi e campanacci” strillo Leo in risposta.
A un tratto, da dietro la curva, nell’oscurità apparvero tre uomini con stivali e cappellaccio in testa, che battevano ritmicamente dei tamburi. Dietro di loro due, quattro, dieci, trentasette, novanta, centocinquanta mucche con al collo enormi campanacci; tra loro altri uomini stivaluti e cappelluti, che percuotevano latte e coperchi.
“E’ la transumanza!” gridò entusiasta Rachele “Tornano dagli alpeggi al piano, settembre andiamo è tempo di migrar…” “Perché diavolo picchiano sui tamburi?” sbraitò Camilla di pessimo umore, come sempre quando veniva svegliata di botto, guardando con occhio truce la frastornante marea che sfilava lentamente sotto Casa. “Credo per mantenere il ritmo, per rimanere svegli…” rispose Leo. “Svegli loro, svegli tutti, eh?” mugugnai ferocemente convinta che, se l’Imaginifico fosse stato qui, di certo avrebbe spaccato il bastone d’avellano sul cranio di quei mandriani casinisti.
Però, talvolta, in campagna esiste davvero il silenzio. Silenzio che in una Casa come questa è rumorosissimo. Il legno dei vecchi mobili e delle travi d’improvviso emette scricchiolii tanto violenti da sembrare spari. Per Leo si tratta di tarli, per Ginotta “a sun le anime del Purgatori ch’a ciamàn preghiere”.
E spesso, nelle stanze semibuie, accade di captare con gli angoli degli occhi ombre sfuggenti: topi o fantasmi?
Le antiche terre come questa sono impregnate di vita altrui. E’ impossibile che i vivi passati, così tanto legati al loro suolo, non abbiamo lasciato qualcosa: non può esistere impermeabilità, quando ci sono muri così umidi.
Per questo di notte in Casa si sentono ovunque sussurri, tonfi, scricchiolii, scalpiccii, schiocchi. Per questo di notte dal cortile e dal giardino giungono arcani borbogli, rugghi, strosci, mormorii, tonfi, ciottolii, ronzii, scricchi, stropicciamenti, zirlii. E’ un continuo pissi pissi, cric cric, taf tunf, tuppete tappete, tic tac, tri tri. Altro che solingo fru fru tra le fratte: qui rumoreggia un intero universo.
Al di là del muro che circonda il giardino, ci sono i campi; nel centro dei campi una chiesina minuscola con un minuscolo campanile dedicata a Maria del Formenton, la Madonna del Granturco.
E d’estate, di notte, dai campi giungono raccapriccianti sospiri ansimanti.
La gente dice che lì, anni e anni fa, vi fu una cruenta battaglia che lasciò sul terreno decine e decine di morti, i quali vennero seppelliti in quegli stessi campi sotto la protezione della Madonna.
La gente dice anche che, sino a sessant’anni fa, si vedevano i fuochi fatui uscire dal terreno nelle notti d’estate e che i sospiri ansimanti – gli “sbanfà de mort”- si son sempre sentiti.
Mio padre, ascoltandoli una sera, risolse il mistero. “Macché morti! Li abbiamo anche noi al mare, quei sospiri. Li emette un piccolo rapace notturno, una specie di civetta che fa il nido sull’alto delle torri o dei campanili e nel periodo dell’accoppiamento lancia quello strano richiamo.”
Ma per noi rimasero sempre i sospiri dei morti, le cui anime tristi imploravano una carezza della Signora del Formenton.”
(…) I Maturandi ammettono che D’Annunzio possedesse doti naturali non comuni: “è orgoglioso di sé, maschio, superuomo, vitale, solare, maniaco sessuale“. Quest’ultima tesi viene rafforzata dalla lapidaria definizione: “D’Annunzio era un mandrillo“.
“In Stabat nuda aestas D’Annunzio racconta di una volta che vide una donna che correva nel bosco. Iniziò così ad inseguirla, anche se non sapeva il suo nome e così lo chiese ad un’allodola che glielo disse. La donna scappava sempre più veloce, ma ad un tratto inciampò e cadde a pancia in giù nell’acqua: così il poeta poté vedere finalmente nuda quella immensa donna”
Tutti conosciamo la passione dell’Immaginifico per il gentil sesso, ma i ragazzi ne sono addirittura ossessionati, convinti che il Vate pensasse sempre e solo alle donne, parlasse sempre e solo di donne, scrivesse sempre e solo di donne. Persino il celeberrimo verso iniziale de La tenzone “O Marina di Pisa”, viene parafrasato “O Marina nata a Pisa“.
Certo è che le femmine ebbero una grande importanza nella vita del Gabriele, ma forse non tutti sanno quali complicate manovre le donzelle dovessero compiere per raggiungere l’amato poeta agli appuntamenti galanti:
Amica, tu verrai furtiva nel verziere.
Amica, tu verrai nascosta nel cesto della verdura.
Cosa non dovevano sopportare le languide dame per amore dell’affascinante Gabriele! Egli le intratteneva ipnotizzandole con le sue magiche parole, ma poi, all’improvviso, poneva loro domande come questa:
Cosa proveresti se ti fiorisse la terra sotto i piedi, all’improvviso?
Che cosa proveresti se ti si forasse all’improvviso la terra sotto i piedi?
Eh? Che proveresti? Oltre che mandrillo, pure sadico. E pensare che sta parlando alla sua Mamma…La povera signora Luisa Benedictis Rapagnetta (“D’Annunzio si dava tante arie, ma il suo vero cognome era Rapagnetta“) non doveva avere un facile rapporto col figlio:
“In Consolazione il poeta tenta di convincere la madre che lui è di nuovo un bravo ragazzo e che non le darà più dispiaceri. Ma la madre non gli crede e poi è arrabbiatissima per il fatto che lui continua a dirle che è sorda. per tre volte infatti le ripete: “Dì, mi senti?” ”
Certo che a mamma Luisa potevano anche saltare ogni tanto i nervi, visto il genere di discorsi che le faceva il figliolo:
Per te sola io vo’ comporre un canto che ti raccolga come in una cuna
Solo per te io voglio comporre una canzone che t’infili dentro ad una cruna
Come il cammello evangelico.
(…) Secondo i maturandi il D’Annunzio nutriva una spiccata predilezione per donne d’ogni razza; nei versi di Lungo l’Affrico “O bianche e nere / ospiti lungo l’Affrico notturno”, non sta certo parlando di rondini e torrenti, bensì di: “donne bianche e negre / ospitate nell’Africa nera come la notte” (…)
Lo charme dell’abruzzese però non lascia del tutto indifferenti le pulzelle diciottenni. Ecco come lo definiscono, parafrasando il delizioso quadro descritto ne La sera fiesolana (che, per la cronaca, secondo i maturandi ha come protagonista uno che “vendemmia delle foglie di gelso“):
E ancor s’attarda all’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta
E ancora si attarda nel lento lavoro sull’alta scala che diventa nera contro il poeta che diventa argenteo
Che “fusto”, il Gabriele!
Ma torniamo inevitabilmente alle sue donne. I ragazzi persistono nell’affermare che gli andavano bene tutte, belle o brutte, umane o marziane:
Non bianca ma quasi fatta virente par da scorza tu esca
Non più bianca ma diventata quasi verde come uscita dalla buccia.
I futuri scienziati hanno invece le idee un po’ confuse nei riguardi di paesaggi, anatomia ossea e fauna dimorante nelle pinete:
E andiam di fratta in fratta or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i malleoli c’intrica i ginocchi)
E andiam di fossa in fossa o uniti o slacciati (e il verde rude forzuto ci lega i polsi ci morde i ginocchi)
“Nella Pioggia nel pineto D’Annunzio dice che la pioggia, cadendo su di lui ed Ermione, varia di rumore a seconda che picchi sui capelli più folti o meno folti” (La pioggia cade / su la solitaria / verdura / con un crepitio che dura / e varia nell’aria secondo le fronde / più rade, men rade)
E cosa accade allo stupendo inizio della La sera fiesolana, quando viene calpestato dalle orde vandaliche dei maturandi?
Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva
Dolci le mie parole nella sera siano per te come la pioggia che grugniva
e dove pioveva?
Sul fieno che già patì la falce e trascolora
Sul fieno già tagliato dalla falce e ora impallidisce dissanguato
(…) Le maturande menti giudicano I Pastori d’Abruzzo dei retrogradi che dovrebbero decidersi a cambiare una buona volta i loro macchinari, visto che “Van pel tratturo antico al piano”, ossia “Vanno verso la pianura su di un vecchissimo trattore” (…)
Gabriele amava il mare ma, già ai suoi tempi, l’inquinamento imperversava:
Ai piedi ho quattro ali d’alcédine
Ai piedi ho quattro ali d’acetilene
Ai miei piedi il segno d’un’onda gravato di nero tritume
Sui miei piedi c’è il segno di un’onda pesante di nero bitume
Ma, nonostante tutto, il Vate ha la possibilità di dedicarsi al suo hobby preferito anche sulle spiagge inquinate o meno; nel verso seguente, sembra che stia parlando di una conchiglia…
Luccica la valva polita
…ma in realtà, secondo i maturandi maliziosi, sta descrivendo una suffragetta:
Luccica la vulva politica
La vita di D’Annunzio è, infine, qualcosa da studiare con somma noia e sopportazione, soffermandosi solo su fatti degni di particolare interesse:
“Condusse sempre una vita ricca di divertimenti, basti pensare al volo su Vienna”
“Viveva in una villa molto bella chiamata Il Vittorioso”
“Perse un occhio in guerra e così decise di scrivere Notturno per non annoiarsi”
“Era diventato tanto orbo che cadde persino dal poggiolo”
“Ormai era vecchio: inventò Eja eja alalà, battezzò la Rinascente e poi morì”
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