Ovidio racconta che tanti ma tanti anni fa, viveva una ninfa chiamata Smilace che si era innamorata – ricambiata – di Krocus, un giovane guerriero.
Ma gli Dei contrastavano questa relazione destinata in ogni caso a finir male, dato che lei era immortale e lui no.
E facevano di tutto per interromperla, rendendoli ossessivi, litigiosi e infelici.
Indomma, la cosa finì male; Krocus si suicidò per frustrata disperazione: Smilace diede fuori di matto e gli Dei, stavolta pietosi, li trasformarono ambedue in piante.
Lei in Smilax aspera , dalle foglie a forma di cuore e i rami flessibili e spinosissimi ( in genovese è elegantemente detta “stracciabraghe“), simbolo d’un amore tenacissimo ma esacerbato.
Lui in Crocus sativus, fiore viola come la passione superba (aveva osato innamorarsi d’una divinità!), ma dal cuore color del sole.
E proprio dai tre piccoli stimmi che formano il cuore d’oro del croco si ricava la preziosissima polverina rossodorata chiamata zafferano; preziosa davvero se si pensa che un chilo può arrivare a costare 35.000 euro…
Lo za’hafaran, come lo chiamano gli arabi , è originario dell’Asia Minore.
Plinio scrive che i Fenici lo usavano non per usi culinari ma esclusivamente per tingere stoffe; le tuniche dello splendido colore giallo vivo piacevano molto alle eleganti signore d’allora, e i Fenici trasportavano le stoffe dal porto di Tiro in tutto il Mediterraneo.
Furono poi gli arabi, guerrieri espansionisti, che fecero conoscere lo zafferano quasi ovunque; dalla Spagna, dove è indispensabile nella paella, all’Indonesia, basilare nel curry.
In Italia era già conosciuto – e importato – ma solo come polvere medicinale; usato tutt’ora a piccole dosi è sedativo, antispastico, eupeptico, mentre a dosi più elevate è invece eccitante: non per nulla i Romani lo utilizzavano come afrodisiaco.
Però già allora era una materia preziosa, tanto che le nostre Repubbliche fondarono i Banchi dello Zafferano, sorta di borse commerciali dove venivano contrattate le partite destinate alle grandi corti di Firenze, Venezia, Milano e Genova.
Forse non tutti sanno che fu solo alla fine del 1300 che il fiore venne ufficialmente introdotto in Italia come coltivazione da un padre domenicano chiamato Domenico Santucci.
Egli era nato a Navelli, in provincia dell’Aquila, e visse a lungo in Spagna, al servizio del Tribunale dell’Inquisizione.
Tornato in Abruzzo, provò a piantare in un terreno di sua proprietà alcuni bulbi di croco spagnolo che attecchirono meravigliosamente e da quel momento divennero una delle maggiori coltivazioni della zona, tanto che la storia d’Abruzzo è quasi inscindibile da quella dello zafferano.
A Civitaretenga, ad esempio, esiste la Chiesa della Madonna dell’Arco che, secondo la leggenda, fu costruita nel luogo dove sorgeva la stalla di una taverna: là dove oggi c’è l’altare, allora c’era la mangiatoia.
Nella taverna venne a soggiornare un pittore il quale però, non avendo una lira, fu dal taverniere messo a dormire – appunto – nella mangiatoia della stalla.
Quella notte al pittore apparve in sogno la Madonna che gli chiese un ritratto; era così bella che l’uomo avrebbe voluto ritrarla immediatamente, ma non aveva colori.
Così usò dello zafferano trovato nella cucina della taverna, e la dipinse sul muro contro cui era poggiata la mangiatoia; così che nacque il culto della Vergine dello Zafferano, immagine miracolosa attorno alla quale gli abitanti del paese eressero la chiesa.
Lo zafferano è sempre stato usato come colore per la pittura, aggiunto in abbondanza alle paste di vetro delle vetrofanie o ai colori usati negli affreschi; e proprio attorno a due pittori ruotano le due leggende che spiegano la presenza dello zafferano a Milano, patria del risotto giallo.
La prima narra di un cuoco abruzzese lì emigrato in periodo di carestia; aveva aperto una piccola osteria, ma poiché non aveva burro, carne, verdura, uova, nulla insomma, era costretto a servire ai suoi clienti solo grandi piatti d’insipido e triste riso lesso.
Un bel giorno ebbe l’idea di aggiungervi un po’ di polvere di zafferano, ricevuto in pagamento da un pittore squattrinato che era venuto a mangiare da lui; i clienti ne furono entusiasti, e il cuoco divenne ricco e famoso.
L’altra leggenda, più conosciuta, racconta di un garzone vetraio che lavorava alla vetrata di Sant’Elena nella Fabbrica del Duomo.
Era bravissimo nel mescolare i colori, rendendoli dorati con l’aggiunta di zafferano: e proprio Zafferano l’aveva soprannominato il suo capo, Valerio di Fiandra.
Un giorno la figlia di Valerio si sposò e il povero ragazzo cadde in crisi perché avrebbe voluto farle un dono bellissimo, ma non aveva una lira; così, durante il banchetto, si presentò reggendo due grandi marmitte di risotto color dell’oro e profumatissimo: aveva inventato anche lui il risotto allo zafferano.