Gattucci e Mazzapicchi: il Manuale dell’Artigiano Dilettante ovvero le Gioie del Bricolage

Un altro brano tratto da In campagna non fa freddo (cap. V), la storia di una famiglia fermamente decisa ad abbandonare l’inquinata, fracassona e caotica città, per trasferirsi nell’avita Casa di campagna.
I personaggi qui citati sono Bianca, la narratrice. Suo marito Leo, il vero maniaco della campagna. Camilla, la loro figlia settenne. Adriana, la madre di Leo. Giacomin, l’anziano giardiniere della Vecchia Casa.

…le vecchie case, se nessuno si prende cura di loro, soffrono come gli essere umani, perdono smalto, calore, allegria: si lasciano andare, insomma. Quindi bisogna curarle, con affetto ed entusiasmo.

“Basta poco” predicava il mio Filobucolico Personale, mentre vagonzolava per le stanze odorose di muffa “Una mano di bianco alle pareti, una controllatina ai tubi, un’occhiatina alle prese della luce, una sistematina alle tegole…”

Giacomin ci era di gran conforto soprattutto quando, con la sua consueta essenzialità di linguaggio, ci rendeva edotti sugli acciacchi che affliggevano la Casa: “Giacomin, in che condizioni è il tetto?”
“Poieùv”
“Le canne fumarie?”
“Borlan giò”
“Gli infissi?”
“Marsc”
“L’impianto elettrico?”
“Vej decrèpit”
“Quello idraulico?”
E qui Giacomin faceva uno strano sorriso e si allontanava scrollando la testa.
Ma Leo, che grazie all’entusiasmo per la Casa aveva ritrovato quell’ottimismo innato di cui io rimanevo completamente carente, continuava a ripetere trullo: “Uh, quante storie! Son tutti lavoretti che posso fare da solo durante i weekend. Ho solo bisogno degli attrezzi giusti”

Chi crede che gli attrezzi da lavoro siano quantitativamente pochi e qualitativamente primitivi, si sbaglia di grosso.
Per esempio: se uno pensa a una lima, che cosa gli viene in mente? Un utensile di metallo più o meno lungo, di solito usato dai carcerati delle barzellette per eliminare le sbarre della prigione. Una cosa semplice, insomma.

Invece, andando a comprare gli arnesi nel più fornito negozio di ferramenta della Città, quando mio marito esordì dichiarando “Vorrei una lima”, si sentì rispondere dal commesso: “Che tipo di lima? Triangolare, quadrangolare, tonda o mezza tonda? A taglio semplice o a taglio doppio? La vuole gentile oppure mezza bastarda, tutta bastarda, o magari la preferisce sorda?”
“Non sapevo esistessero lime così sfigate”, commentai.
“Se esistono tante lime, vuol dire che servono tutte” rispose Leo, imbarazzato dai miei commenti così poco professionali. Quindi, rivolto al commesso, tagliò corto dicendo: “Le prendo tutte. E vorrei anche un martello”.

Quel giorno scoprimmo che  pure la razza dei martelli era assai variegata e popolosa, nonché estremamente necessaria a chiunque voglia restaurare una Vecchia Casa. Perciò acquistammo non un semplice martello banale e solitario bensì, nell’ordine, un maleppeggio, martellino piccolo da muratore; una bocciarda, martello fornito di punte piramidali e atto a percuotere la pietra; un granchio, martello con la punta biforcuta specializzato nello schiodamento; un maglio, martellone grosso e pesante in cui è inserito un tronco di legno che serve da impugnatura e, infine, un mazzapicchio, martello usato per cerchiare le botti nonché – cosa per noi fondamentale – abbattere animali nei macelli.

Dopo aver fatto provvista anche di tenaglie arzinche, bulloni prigionieri, viti autofilettanti e a espansione, dadi d’ogni peso e misura, chiavi a pappagallo, livelle, pinze, scalpelli e punteruoli di varie etnie, ci recammo nel reparto libri ad acquistare, sempre su consiglio del gentile commesso, il Manuale dell’artigiano dilettante.

Ogni venerdì sera raggiungevamo il Paese e ogni sabato mattina, sin dalle ore sette e trenta, in Casa risuonavano martellate furibonde e trapanate assordanti.

Tutte le donne che, tramite il Fato, si siano trovate a condividere la vita con un uomo naturalmente portato al bricolage, sanno benissimo quanto l’hobby del loro compagno sia estremamente coinvolgente. Infatti, volenti o nolenti, occorre assisterlo in continuazione durante i suoi lavoretti, onde essere sempre pronte a esaudire qualche centinaia di piccole richieste tipo: “Vammi a prendere nella cassetta dei ferri un cacciavite a stella. Ho dimenticato le tenaglie in cortile, ci vai tu? Passami la punta del trapano numero otto, no, quella è la dieci, non ci vedi? Dovresti salire al piano di sopra, ché ho dimenticato le pinze. Reggimi la scala. Tieni fermo questo pezzetto di legno che lo devo piallare; ma sì lo so benissimo che la tua mano è proprio sulla traiettoria della pialla: cosa credi, che sia scemo?”

Insomma, la smania del “faccio tutto io” che colse Leo all’inizio della sua storia d’amore con la Vecchia Casa fu massacrante in ogni senso. Non so quanti metri di cerotti e litri di disinfettante vennero appiccicati e versati su ogni centimetro quadrato del suo corpo.     Riuscì a martellarsi dita, piantarsi schegge nelle mani, bombardarsi gli occhi con limatura di ferro, rovesciarsi barattoli di vernice in testa, rischiare di morire soffocato dalla polvere di pietra inghiottita a causa di trapanate troppo violente, di avvelenarsi respirando gli effluvi di miracolosi prodotti sciogliruggine.
Le sue laboriose manine scrostarono muri provocando voragini, impiantarono nuove prese elettriche creando pirotecnici cortocircuiti, sistemarono tutte le maniglie delle porte in modo tale che non se ne aprì più nessuna e infine si dedicarono entusiaste ad aggiustare sedie traballanti e pensili sbilenchi, ottenendo l’utile risultato di rifornire di legna tutti i camini di Casa.

Un giorno decise di cambiare un vetro incrinato della finestra in sala da pranzo; una semplice e vecchia finestra di legno, col telaio diviso a quattro luci.
Ovviamente si trattava di un lavoro per lui semplicissimo, ma che imponeva necessariamente la presenza fisica di moglie, figlia e madre la quale, appena tornata da Vienna e in procinto di partire per Helsinki, aveva avuto il lume di venirci a trovare.

“Allora, il vetro nuovo eccolo qua, me lo sono fatto tagliare dal vetraio del Paesone” spiegò il nostro Factotum. “Ora è sufficiente seguire alla lettera le istruzioni del Manuale, che Bianca mi leggerà punto per punto”
“E noi che facciamo?” chiesero in coro Camilla e Adriana.
“State ferme lì: può darsi che abbia bisogno di voi”
“Tutto suo padre…” sospirò commossa Adriana, mentre io obbediente iniziavo a leggere: “Ogni perfetto artigiano dilettante noterà subito che le lastre di vetro sono inserite in due scanalature laterali del telaio e vengono separate fra loro da listelli di legno pure scanalati…”
“L’ho notato: vai avanti.”
“…ma innanzitutto, per sostituire una lastra di vetro, occorre sfilare il telaio dai cardini della finestra”.

E qui il Perfetto Artigiano Dilettante incappò immediatamente nel primo, piccolo problema perché il telaio si rifiutò categoricamente di abbandonare i suoi amati cardini: ruggine, polvere e lerciume secolari li avevano incastrati indissolubilmente.
Leo ingaggiò così un feroce corpo a corpo con la finestra sino a quando ci piazzò una spalla sotto, spinse all’insù e il telaio schizzò sino al soffitto, ripiombando fragorosamente a terra.
“Ora tutti e quattro i vetri sono rotti” osservò perspicace Camilla.
“Vabbé, almeno saranno più sicuri se li metto tutti nuovi” ribatté suo padre, posando delicatamente il telaio orbato di vetri su un tavolo: “Solo che ora devo tornare dal vetraio a comprarli”

Salì in macchina e partì a tutta birra in direzione del Paesone. Dopo un’ora era di ritorno coi nuovi vetri.
“Eccomi qui. Dove eravamo rimasti?”
“Dovevi sostituire un vetro rotto e ne hai rotti altri tre” riassunse sua madre, mentre io ricominciavo la lettura del Manuale: “A questo punto dovrete sfilare una a una le lastre di vetro e i listelli”
“Le lastre non ci sono più: sfilo solo i listelli. Poi?”
“Ora inserite la lastra nuova, che avrà ovviamente dimensioni tali da potersi introdurre facilmente nelle scanalature del telaio.”

La collutazione di Leo col telaio e la prima lastra di vetro fu davvero eroica ma, nonostante gli epici sforzi, ne uscì sconfitto.

“Porca l’oca, queste maledette lastre sono più grandi di almeno tre centimetri, non ci passeranno mai nel telaio! Come posso aver sbagliato le misure? E’ che mi distraete! Ora devo tornare al Paesone per farle ritagliare, stavolta della misura esatta”

Tornò dopo un’ora e mezza, con altre quattro lastre di vetro nuove di zecca.
“Per essere sicuro, le ho fatte rifare di sana pianta. Su, leggi il seguito”
“Spuntate gli spigoli della lastra”
“E non potevi dirmelo prima, che lo facevo fare dal vetraio? Come accidenti si spunteranno gli spigoli di vetro?”

Vi fu un primo tentativo con la carta vetrata, un secondo con una lima, un terzo con un martello; quando Leo risalì in auto per tornare dal vetraio, Adriana e io, sgombrando per l’ennesima volta il pavimento da miriadi di taglientissime schegge e aiutate moralmente da Camilla messa al sicuro sopra un buffet, ci lasciammo andare a considerazioni molto poco gentili nei confronti della specie maschile in generale.

Dopo due ore Leo fu di ritorno: “Ho fatto una scorta di lastre di vetro che bastano per vent’anni. E adesso il Manuale cosa dice di fare?”
“Qui c’è scritto: prima di inserire la lastra, pulire delicatamente le scanalature del telaio con l’estremità di un gattuccio”
“Gattuccio? Cosa diavolo è un gattuccio? Camilla! Vai a cercare sul vocabolario”
La figlia saltò giù dal buffet e sparì in biblioteca. Dopo poco ne uscì reggendo fra le mani un pregevole esemplare di Rigutini-Fanfani rilegato in pelle. Dopo averci soffiato su per eliminare la polvere di secoli e dopo aver impiegato circa mezz’ora a trovare prima la G, poi il GAT, il GATTU eccetera, esclamò trionfante “Eccolo! Gattuccio! Esiste! Non era uno scherzo di mamma! ” e iniziò a leggere ad alta voce “Gat-tuc-cio: pesce car…caartilagi…caartilaginèo…”
“Cartilagìneo, tesoro” la corresse la nonna.
“Uf, cartilagìneo maarino, ap-par-tenente alla faaamiglia dei pee-sce-cani”
“Figurati se devo pulire le scanalature della finestra con un pescecane” bofonchiò Leo.
“Ma come, non lo sai che il torrente del paese brulica di squali?” ridacchiò sua madre.
“Spiritosa. Camilla, guarda se c’è un’altra definizione di gattuccio”
“Sì: diii-minuu-tivo di gatto”
“Sicuro! Prendi un piccolo gatto, gli infili la coda nelle scanalature e la muovi su e giù come uno spazzolino” suggerii.
“Maledizione! Datemi quel vocabolario!” ringhiò l’Uomo dalle Mani d’Oro “Dov’è. Eccolo qui, gattuccio…Torno subito” e ripartì in macchina diretto al Paesone perché, quando aveva comprato le centinaia di attrezzi da lavoro, si era dimenticato il gattuccio, che poi altro non era che un banalissimo seghetto da falegname.
Tornato brandendo minacciosamente il gattuccio, ne infilò l’estremità nella scanalatura, lo mosse con delicatezza avanti e indietro sino a quando la scanalatura, anziché limitarsi a diventar pulita si divise completamente a metà, segata alla perfezione.
“Ho capito” sospirò tentando di ignorare le sue tre donne che si rotolavano sul pavimento in preda a convulsi di riso. “E il legno che è marcio: dovremo sostituire tutte le finestre”

Mentre appendeva al posto del telaio un’enorme tela cerata, l’Artigiano del Mio Cuore sbottò: “Oh, insomma: basta! Un povero cristo che lavora come un pazzo dal lunedì al venerdì in un ufficio di cacca, tra ficus benjamin e open space, avrà pure il diritto di riposarsi il sabato e la domenica, no? Sono stanco, io, sono un semplice laureato in Economia e Commercio, cosa volete che ne sappia io di muratura e falegnameria, cosa pretendete da me, l’onniscienza, eh?”

© Mitì Vigliero

Altri brani qui, qui , qui

Il Giardino di Bakunin: dedicato agli appassionati di giardinaggio

Dedico a tutti gli appassionati di giardinaggio una parte del XVI capitolo del mio In Campagna non fa freddo,  storia di una famiglia fermamente decisa ad abbandonare l’inquinata, fracassona e caotica città, per trasferirsi nell’avita Casa di Campagna.

I personaggi qui citati sono  Bianca, la narratrice. Suo marito Leo e Camilla, la loro figlia settenne. Zia Rachele, che li aiuta nell’impresa. E poi Ginotta  e Giacomin, anziani custodi della Casa.
Adriana la madre di Leo appassionata di viaggi e odiatrice della bucolica quiete.  Zia Delfina, l’antica proprietaria della Casa, Il Sindaco detto Sindich, l’Archiciàp (ir)responsabile direttore dei lavori di ristrutturazione insieme alle sue Truppe Cammellate, il Maresciallo dei carabinieri, Don Maso il Parroco e infine
il Vivaista, che ora coi proventi elargitigli dalla famiglia cittadina vive in una villa in Florida.

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…Ovviamente, per creare un giardino come dicevo io, dovetti acquistare qualche piccolo attrezzo: rastrelli, palette, spargisemi, cesoie, un rullo frangizolle, forche, guanti, stivali, cuscinetti para ginocchia e, infine, Leo mi regalò il Manuale del perfetto giardiniere.

Ne avevo progettato uno splendido; un grande prato all’inglese sul quale sistemare fiori, cespugli e arbusti a mio piacimento. Ma, secondo il Manuale, per ottenere una buona riuscita del prato era innanzi tutto indispensabile un’accurata preparazione del terreno:

Esso dovrà essere perfettamente livellato; quindi, dopo averci passato più volte il rullo frangizolle, per ottenere un’assoluta compattazione occorrerà  camminarci su a velocissimi e brevissimi passi, appoggiando tutto il peso sui talloni”.

Fu così che Leo, Camilla, Rachele, Ginotta, Giacomin, l’Archiciàp, un paio di esponenti delle Truppe Cammellate e io trascorremmo due ore a zampettare sul terreno, aiutati anche da Don Maso, rapito nel momento in cui era giunto a benedire la Casa in previsione delle feste pasquali.

A un tratto fummo interrotti da una voce: “Va bene che sono appena tornata dalla Spagna, ma non era il caso d’accogliermi ballando il flamenco”.

Era Adriana, la quale aveva assistito allo spettacolo standosene affacciata alla veranda.

“Mi ghe l’avévi ditt che l’era ‘na stupidàda…” brontolò dignitosamente Ginotta, lanciandomi un’occhiataccia.
Però il terreno risultò infine compatto alla perfezione.

Appena l’erbetta iniziò a spuntare, mi resi conto che l’aver sfidato lo spirito di zia Delfina era stata cosa poco saggia. Infatti avrei potuto affittare il mio prato a una Scuola Agraria per permettere agli studenti di osservare da vicino tutte, ma proprio tutte le malattie di cui sono soggetti i prati.

Poiché il drenaggio era difettoso, sull’erba comparve presto un repellente strato viscido e gelatinoso composto d’alghe e licheni. Poi gli steli si tinsero di color zafferano a causa degli elatteridi, e perciò fui costretta a far spolverizzare il terreno con micidiali geodisinfestanti.
Dopo un po’ il prato divenne marrone e si coprì di muffa bianca e cotonosa per colpa della fusariosi, che dovetti debellare con un velenosissimo anticrittogamico.
Infine, tanti piccoli e irregolari cumuli di terra comparvero sparpagliati sul terreno: erano arrivati i lombrichi, animali di solito buoni per il giardinaggio, ma nefasti per i prati all’inglese.

Secondo il Manuale del perfetto giardiniere avrei dovuto eliminare i coni di terra con “scopature periodiche”.

“Figurati un po’ se adesso mi metto a scopare il prato.”
“Potresti usare l’aspirapolvere” suggerì pratica mia suocera, che continuava a rimandare la sua partenza per l’arcipelago delle Lolland perché con me si divertiva di più.

Quando, finalmente, il prato fu a posto, invasa dal sacro fuoco verziero afferrai una pila di cataloghi di fiori e approfittai di vantaggiose offerte tipo ottocento bulbi misti di tulipani, narcisi, giacinti, muscari, crochi, anemoni, ranuncoli, nonché un centinaio di gigli dai diversi colori.
Camilla invece scelse trenta piante di super mirtilli Patriot, trenta di mega lamponi Himbo-Star e trenta  di ribes varietà Rondom.
Infine obbligai tutta la famiglia a seguirmi in un grande Vivaio vicino al paese, dove acquistai una giungla d’ortensie e dalie unite a rose gialle Paul’s Lemon Pillar, salmone Metanoia, rosa Blossom Time, rosso scure Mr Lincoln, oltre le True Love color crema e le arancioni Sultane Beauty.

Zia Rachele, esperta in erboristica, fece scorta di piante officinali: agrimonia, utile a debellare le faringiti, malva contro il mal di denti, altea per il mal di stomaco, angelica per combattere l’inappetenza, verbena contro i reumatismi, cardamomo attivante la salivazione, capsella antiemorragica e, già che c’era, anche un po’ di bardana, miracolosa nella cura della calvizie.

Adriana volle camelie, gerani, gerbere, gladioli, rododendri, portulache, salvia splendens, peonie e calle, mentre Leo si limitò a un paio di giovani alberi scelti non si sa con quale criterio (una betulla, un tiglio, una tuia, un sorbo degli uccellatori) e infine qualche cespuglietto – così, tanto per gradire – di lillà, lavanda, forsizia, passiflora, bignonia e gelsomino.

Una volta messe a dimora le varie piante e dopo essermi ripresa dal collasso causato dal conto del Vivaista, dovetti affrontare un nuovo grande problema: ogni mattina il mio bel prato era cosparso da innumerevoli tumuli di terra smossa.

“Ràtt tappun” fu la diagnosi di Giacomin.
“Talpe” tradusse Leo. “Un battaglione di talpe. O una talpa solitaria, ma freneticamente attiva.”

Il Vivaista ci consigliò dei piccoli tubi da inserire nelle gallerie: “Sono fumogeni; voi li accendete con un fiammifero, li buttate nei buchi e le talpe moriranno soffocate”.

Dopo aver rischiato di incendiare metà dei costosissimi cespugli appena piantati, decidemmo di tentare metodi meno cruenti e perigliosi.

“Le talpe hanno paura delle voci umane” disse il Sindich, e così ci riunimmo numerosi in giardino gridando come ossessi, ottenendo l’unico risultato di far accorrere il Maresciallo, chiamato d’urgenza dai vicini allarmati.

“Le talpe odiano le vibrazioni” disse il Don. “Al mio paese appendiamo agli alberi delle tegole, che col vento sbattono sul tronco: le vibrazioni passano alle radici e così le talpe scappano.”

Appendemmo le tegole, ma dato che in questo paese non c’è mai un refolo di vento manco a pagarlo, la cosa si rivelò originalmente decorativa e totalmente inutile.

Infine il problema fu risolto dalla Ginotta la quale, una mattina, si presentò reggendo una cestina coperta da un tovagliolo a scacchi: “Ariss-porchìn” annunciò sollevando il tovagliolo e mostrando una tenera famiglia di ricci, padre, madre, e figlio.
Anche se non compresi mai il motivo preciso, da quel giorno le talpe decisero di emigrare.

A quel punto il Vivaista mi convinse quanto fosse assolutamente indispensabile fornire il mio giardino di un irrigatore oscillante:
“Completamente computerizzato, ha la caratteristica di poter innaffiare completamente tutto intorno, o di agire soltanto sulla verticale verso destra o verso sinistra, oppure su entrambi i lati” mi spiegò “Inoltre il getto d’acqua può essere variato passando dalla nebulizzazione al flusso pieno e infine può essere comodamente attivato tramite ordini programmati sull’apposito timer.”

Ma l’irrigatore, una volta piazzato nel centro del giardino, si rifiutò sin dal primo giorno di obbedire agli ordini: poiché era un vero anarchico, lo battezzammo Bakunin.

Bakunin non innaffiava mai quando doveva innaffiare, bloccava il timer e sabotava la messa in funzione manuale rifilandoci scosse da sedia elettrica.
In compenso, quotidianamente, dal giardino s’elevavano improvvisi strilli lanciati da chi, per caso, gli passava vicino e veniva investito da inaspettati e violenti getti d’acqua gelata che Bakunin emetteva a suo piacimento.

Notammo presto che nutriva una particolare antipatia nei confronti dell’Archiciàp; come ne sentiva la voce in lontananza, iniziava a gorgogliare sommessamente, poi si metteva a vibrare tutto eccitato e infine, appena il poveretto si trovava a distanza esatta, lo colpiva in pieno con la potenza d’un idrante.

Perciò, quando l’erba e i fiori erano particolarmente secchi, divenne nostra abitudine invitare cordialmente l’Archiciàp a gustare aperitivi e merende da noi: in giardino, s’intende.

La nefasta influenza di Bakunin ben presto si dimostrò dilagante; non so come, ma riuscì a convertire al sovversivismo più assoluto il giardino al completo.

Fu per colpa sua che le rose scelte con amore in varietà multicolore, si limitarono a far sbocciare esclusivamente fiori bianchi; fu sempre sua responsabilità se il glicine e il gelsomino si rifiutarono di emettere ogni sorta di profumo, così come fu sempre lui a fomentare allo sciopero le coscienze degli ottocento bulbi, di modo che ne attecchirono solo venti e, infine, fu sempre lui a istigare metà di gladioli al suicidio.

Ma un giorno fece un passo falso.

Avendo terminato la sua bieca missione terroristica nel mio giardino, Bakunin decise di sobillare l’orto di Giacomin.

Persuase quindi i semi d’insalata a germogliare saponaria; convinse i peperoni dolci a diventare piccanti e, infine, chiamò a raccolta tutti i lumaconi dei dintorni affinché organizzassero un esproprio proletario degli ortaggi.

Questo, per Giacomin, fu il colmo.

Dopo esser corso alla cascina, tornò scavallando in giardino imbracciando una doppietta caricata a pallettoni.

Poi si piantò a gambe larghe di fronte a Bakunin, prese la mira e, al grido di “pietà l’è morta”, lo fucilò.

© Mitì Vigliero, dal cap. XVI di In Campagna non fa freddo(Mondadori)