Sono passati tanti anni dalla prima edizione del mio – ormai testo d’antiquariato – Stupidario della Maturità; molti Maturandi di allora probabilmente hanno figli già alle prese con l’Esame-Incubo per eccellenza, la prima “Grande Prova” della loro vita.
Eppure, nonostante il tempo trascorso e il passaggio generazionale, le sensazioni che l’Esame di Maturità provoca nei ragazzi sono sempre le stesse, identiche a quelle provate dai loro padri e nonni. Non importa che il livello di difficoltà si sia indubbiamente e generalmente abbassato; l’agitazione, l’ansia, la paura, sono sempre uguali. E oggi come allora, contribuiscono alla creazione delle meravigliose, surreali, assurde stupidatepartorite dai maturandi durante gli scritti e orali.
Ne riporto qui alcune estratte dai vari capitoli dello Stupidario annata 1991, dedicandole con un mare di affetto ai Maturandi annata 2018; prendetele come un intervallo rilassante e tutto da ridere, cercando però di non ripeterle all’esame, eh? ;-)
Certo si è tentati di non non pensarci troppo alla Morte; lo sappiamo benissimo che “Chi muore giace, chi vive si dà pace”, ma anche da vivi continuiamo ossessivamente a usare nei nostri modi di dire quotidiani l’immagine di quella che Gozzano definiva la “Signora vestita di nulla” come simbolo della nostra avventura terrena.
Diciamo “ti amo da morire“, “mi fa morir dal ridere“, “ho un’ansia mortale“. Giochiamo a “Tresette col morto“. Ce l’abbiamo spesso “a morte con qualcuno”; più volte al giorno ci capita di sentirci circondati da “morti di sonno”; ci sono sere che torniamo a casa definendoci “stanchi morti” o “più morti che vivi” e magari le incertezze sul lavoro, causa fusioni esuberi chiari di luna, impediscono a molti di “sapere di che morte morire”, mentre il mobbing in ufficio fa sentire vittime di “morte civile“ e per obbligo facciamo cose alle quali invece avremmo voglia di rispondere “manco morto“.
Ma in fondo sono esperienze che insegnano sempre qualcosa – “Fino alla bara sempre s’impara” – e “A tutto c’è rimedio, fuorchéalla morte” che altro non è che “un debito comune” che abolisce ogni preoccupazione materiale: infatti “L’ultimo vestito ce lo fanno senza tasche” dato che, come rammentano i milanesi, “Se ven al mond biott (nudi), e se va via senza fagott”.
Qualcuno si consola sapendo che da Unica Vera Democratica, la Morte tocca veramente a tutti prima o poi, piombando in casa di chiunque, povero o ricco, umile o potente.
Isalentini infatti dicono “Sulu la morte è giusta a stu mundu” e i napoletani chiosano “‘A morte nun tene crianza”, non conosce educazione o etichetta. Arriva a qualunque ora del giorno – “Tanto è morire all’alba che a levar di sole”- in qualsiasi momento. Non rispetta feste e intimità né fa tanti complimenti: “La mort le ven denter senza piccà, le traffega senza parlà, e le te indormenta senza fatt ninà”, entra senza bussare, traffica senza parlare, e ti addormenta senza farti ninnare.
Assodato che “Si muore giovani per disgrazia e vecchi per dovere”, un poco provocano ansia quelle saggezze lievemente retoriche che proclamano “Un bel morir tutta la vita onora”. Si vabbé, ma se si potesse rimandare ancora un cicinìn, eh? Mica per nulla i genovesi dicono “A pagare e a morire c’è sempre tempo“…
Siamo d’accordo, la vita non sarà sempre rose e fiori, però non hanno tutti i torti iveneti quando affermano “Tacai a on ciodo,mavivi” (attaccati a un chiodo, ma vivi) o i toscani quando dicono “Piuttosto can vivo che leon morto”.
Perché la Signora vestita di Nulla non è lieve per niente; lo ricordano bene gli spagnoli dicendo “A cavar di casa un morto, ce nevoglion quattro vivi”, mentre i parsimoniosi scozzesi aggiungono sospirando: “Persinola morte non è gratis: ci costa lavita”.
“Il bagno in mare può far miracoli, può trasformare un bimbo scrofoloso in un gagliardo rampollo che porterà il vostro sangue fino alla centesima generazione, può cambiare una convulsa damigella che sviene all’odore del gelsomino in una robusta matrona che può ascendere il Monte Bianco. Quindi andate al mare, o uomini di pianura e di palude, di colli e di monti. Andate al mare e ne riporterete a casa vostra salute, gioia, poesia.”
I genovesi ligi ai consigli del celebre igienista, abbandonavano case e scàgni (uffici) per recarsi “a prendere il bagno” in spiagge che sembravano distanti chilometri perché situate allora davvero in altri “paesini-frazioni” che oggi invece fanno parte integrante della città.
Andare solo a Sampierdarena o a San Nazzaro (oggi Corso Italia) era un viaggio da famiglia Brambilla in vacanza; i mezzi di trasporto più comuni erano itreni della stazione Principe o le linee tramviarie come la Genova-Foce che partiva da Piazza dell’Annunziata e si fermava (come diceva la pubblicità) a “venti passi esatti” dagli stabilimenti balneari.
A Ponente i più noti erano i Cristoforo Colombo, Stella, Balilla, Giunsella, Margherita e Borana di Sampierdarena; a Cornigliano i Victoria, quelli accanto al Castello Raggio, e i Costanza; a Sestri quelli del Grand Hotele poi i Pegli.
A Levante i Bagni Popolari Strega(dove ora c’è la sopraelevata), iSan Giuliano, i San Pietro; i Marinetta a San Francesco d’Albaro (dove andava Gozzano), i Pompei, Baccione, Ciccettae Casareggio a Sturla, mentre il Lido d’Albaro verrà inaugurato solo nel 1908.
Le famiglie, stracariche di vettovagliamenti vari, una volta entrate negli stabilimenti si separavano: uomini da una parte, donne dall’altra.
A ciascuno dei sessi erano riservati cabine e camerini, bagni e docce, salvagenti e canotti, porzioni di spiaggia e persino di mare, il tutto posto a debita, pudica distanza.
Spesso un lungo tendaggio appeso a una corda divideva la spiaggia femminile da quella maschile e la corda proseguiva in acqua , vuoi per divisorio vuoi per aiuto a nuotatori inesperti.
Su tutti vegliavano nerboruti, baffuti bagnini ma se qualche signora desiderava imparare a nuotare, doveva rassegnarsi alle lezioni di energiche, anziane bagnine dal gonnellino a righe rosse.
Le bagnanti chiuse nei camerini, dopo aver impiegato mezz’ora a spogliarsi dalle lunghe gonne, corpetti, camiciette, corsetti, sottovesti, calze, mutandoni e cappellini, ne impiegavano un’altra per infilare ilcostume da bagno di lana di alpaca rigorosamente blu o nera (per evitare scandalose“trasparenze“), decorato al colletto da righine bianche.
Un vero e proprio abito intero e, una volta bagnato, pesantissimo, arricchito da gonne sovrapposte ornate di balze sino a metà polpaccio e maniche al gomito; le adulte indossavano spesse calze di seta e tutte, in testa, vezzose cuffiette di lana, arricciate e bordate di pizzo, calcate sino alla radice del naso. Obbligatorio l’ombrellino parasole, possibilmente di bambù o seta a disegni orientali.
E gli uomini, cui la moda maschilista permetteva più audacia, infilavano tute di lana composte da canottiera e lunghi bermuda aderenti; in testa, una fresca, distinta paglietta atta sia a riparar dal sole, sia a proteggere dal salino i capelli impomatati, sia a salutare galanti – dall’altra parte della barricata – le natanti donzelle.
La vita nello stabilimento balneare fine ’800 primi 900, non comprendeva soltanto i bagni in mare. Erano molti quelli che, pur trascorrendo ore sulla spiaggia, preferivano starsene completamente vestiti all’ombra di ampi tendaggi stile padiglione arabo.
Sempre secondo il Mantegazza “respirare l’aria salata” era una cura anch’essa, che preservava da raffreddori e bronchiti invernali, ossigenava il sangue arterioso e, grazie allo jodio, stimolava l’intelligenza.
Le signore più mature sferruzzavano o ricamavano, tenendo incessantemente d’occhio le giovani figlie o nipoti le quali, sfacciatelle, pareva facessero apposta ad arrotolarsi negli ampi costumi bagnati per mostrar meglio le forme ai giovanotti dell’altra metà della spiaggia.
I signori dai candidi favoriti fumavano la pipa o il sigaro, finalmente liberi di farlo all’aria aperta di fianco a consorti miracolosamente non geremianti per “l’orribile puzzo“.
E tutti, uomini e donne, indossavano rigorosamente abiti bianchi larghi e leggeri e, viste dall’alto, le spiagge sembravano popolate dacandidi, immensi gabbiani.
(Lido d’Albaro)
I bagni Victoria di Cornigliano erano tra i più comodi, dotati persino di “gabinetti di lettura“, ampie cabine fresche e arieggiate dove era possibile rintanarsi per leggere in pace libri e giornali messi a disposizione gratuitamente.
I pomeriggi domenicali venivano invece allietati da lunghe e chiassose esibizioni della Banda Dilettante Cittadina e, se si voleva, la giornata al mare poteva proseguire sino a notte tarda poiché ai Victoria esisteva un’immensa sala prefabbricata fatta apposta per concerti e danze, così come al Lido d’Albaro.
Gli stabilimenti più eleganti avevano già allora dei bar-ristorante posizionati su terrazze di legno, dove la divisione dei sessi non esisteva anche perché – come avvisavano grandi cartelli posti all’ingresso – era “severamente obbligatorio” andarci completamentevestiti.
Lì s’ingannava il tempo sorseggiando tamarindi, limonate o liquori, inghiottendo cucchiaiate di gelati e granite, ingurgitando fettone di torta di riso e formaggio o crostate.
Intorno ai quei tavoli, allora come ora, c’erano sempre gli indefessi eroi della briscola, della dama, degli scacchi.
Ma soprattutto, allora come ora, si “ciattellàva” tanto di questo e di quello, e i pettegolezzi sussurrati, le opinioni politiche, le discussioni familiari, le parole d’amore venivano raccolte tutte insieme dalla brezza marina e portate al largo, verso l’orizzonte lontano.
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