Sin dai tempi antichissimi è stata tenuta in grande considerazione e consacrata agli Dei; ad esempio Bacco, dio del vino, è stato quasi sempre immaginato e raffigurato coronato, oltreché di pampini, di foglie d’edera (Cfr. Caravaggio).
Presso i Greci era tipico del rito nuziale che l’ara del matrimonio (dedicata al dio Imene) fosse rivestita d’edera e che se ne consegnasse solennemente un rametto a coloro che si giuravano eterno amore, quasi per rammentare che il nodo col quale si legavano non poteva infrangersi che con la morte.
Per questo è il simbolo di “amore inscindibile”; per questo attorno ai muri delle case dei novelli sposi sino a non molto tempo fa venivano messe piantine d’edera che, crescendo, le avvolgevano come un mantello di protezione.
E se la pianta si ammalava e moriva, significava che anche l’amore era in pericolo.
Albero dai frutti deliziosi anticamente dedicati al dio Priapo, perché considerati simbolo dispensatore di potenza sessuale e fertilità. Ma questo era già sottinteso nella Genesi (3:7), in cui si narra di Adamo ed Eva i quali, perduta l’innocenza originaria a causa del Peccato -appunto-Originale, tentarono di celare le loro nudità sotto larghe foglie di fico.
Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture
I Greci addirittura ebbero per molto tempo il monopolio dei fichi secchi, di cui erano gelosissimi; non permettevano assolutamente che venissero esportati dai loro territori, quasi fossero una “medicina” preziosa atta a preservare la specie. Quelli freschi invece, che secondo loro non possedevano abbastanza “potenza” concentrata, erano a disposizione di tutti.
Poi col passare del tempo si comprese forse che i fichi non avevano poi tutte quelle pruriginose proprietà e persero valore; da qui il detto “non m’importa un fico” o “valereun fico secco“. (Non è del tutto vero, ma è buffo pensarlo. Del “non valere/non importare un” ve ne parlerò un’altra volta ;-)
Per i Romani invece il fico era collegato all’allattamento; pare che la Lupa allattasse Romolo e Remo standosene all’ombra di un fico che venne chiamato, derivandolo o dal termine “ruma” (mammella) o dal nome di Romolo fondatore, Fico Ruminale; ciò diede origine a una nuova Divinità, Rumina, la Dea dei Poppanti romani
Sognare di mangiare fichineri significa felicità in arrivo; ma sognare di vederli sull’albero invece significa “affari magri e incerti”.
L’albero di fico, al quale di impiccò Giuda pentito d’aver venduto Gesù, viene da allora definito “traditore”; in realtà è “traditore” perché spesso i suoi rami, pur all’apparenza molto robusti, si rompono all’improvviso sotto il peso di chi abbia la malaugurata idea di arrampicarvicisi sopra.
E da voi come si dice fico? E conoscete altri proverbi o modi di dire o curiosità varie che lo riguardano?
Mimosafiorita: Ciociaro: sotto gliu fico ce nasce la fichecella ” cioè tale padre, tale figlio”
Smoot:Salentino: “ficu” (pianta), “fica” (frutto). L’uceddru subbra la fica se ‘mpica. (L’uccello si impicca sulla … fica) Quannu rrìa la fica lu milune se ‘mpica. (Quando matura il fico, il mellone si impicca, non è più buono)
Adriano: in sardo campidanese: “sa figu” (al femminile) è il frutto . “sa matta ‘e sa figu” la pianta del fico
ZiaPaperina: “Essere er mejo fico der bigoncio”
Beppe: Far le nozze coi fichi secchi.
Pievigna: Io conosco un indovinello sul fico: “Vae do par un trojet, cate un vecet, le cave ‘e braghese e le magne el culet, eo che?” trad. “vado giù per un sentiero, trovo un vecchietto, gli tolgo i pantaloni e gli mangio il culetto, cos’è?
Antar: Io la gran parte di quello che so riguardo al fico l’ho imparato grazie a Guccini. Credo che sia molto istruttivo…
Clò: in molisano si dice “R’ ficura” !
Rosy: Il latte delle foglie di fico ha il potere di far sparire porri e verrucche
AndreA: In campidanese Sa (articolo al femminile) FIGU. da non confondere con Sa “Figu Morisca” (che invece sono i fichi d’india) [morisca=portata dai MORI] ;-)
Brianzolitudine: Del fico in brianza mobiliera è ricordata l’atroce parabola di Cristo. Il fico simbolo dell’accidia: quando Gesù il lunedì santo lo visita lo trova senza frutto. E infatti il legno di fico in brianza non serve a nulla, è un legno inutile. Un legno maledetto, memento per tutti i pigri brianzoli.
Camu: Io conosco un brindisi insegnatomi da un mio amico fiorentino. Brindo al pero ed alla pera, brindo al melo ed alla mela, brindo al fico ed alla sua signora.
Krishel: Detti non ne conosco ma so che il Fico per la sua natura zuccherina è tremendamente sconsigliato ai diabetici.
Cristella: A Rimini si dice “e’ fig”. Modi di dire: “Fig e aqua”: due cose che insieme non vanno bene. Di uno passato a miglior vita si dice “ch’un pò magnè piò i fig” (che non può mangiare più i fichi”). “Un fig l’ha fat s-ciupè un sumàr!” un fico ha fatto stramazzare un somaro per il carico eccessivo (la goccia che fa traboccare il vaso).
Le antenate delle scarpe (dal germanico “skarpa”, sacca di pelle) indossate dai paleolitici erano cortecce, foglie, fibre vegetali intrecciate o pelli varie che venivano avvolte attorno ai piedi per proteggerli dalle asperità del suolo.
Già nella Bibbia si parla genericamente di “scarpe da viaggio e “scarpe femminili di lusso”; Egizi, Ittiti, Sumeri, Babilonesi, Assiri e Persiani avevano calzature basse di tomaia ma alte sulla caviglia per le donne, mentre gli uomini indossavano stivali che coprivano il polpaccio arrivando sino alla coscia.
I Greci, come narrato ne “Il Calzolaio” del poeta Eroda di Coo (III sec.) ne avevano 18 tipi, ma i più comuni erano due: il “monodermom”, unico pezzo di pelle legato alla caviglia in cui il piede era infilato come in un sacchetto e d’estate dei sandali ricavati da un pezzo di cuoio o legno tagliato a forma di pianta di piede che fungeva da suola dal quale partivano stringhe che venivano avvolte attorno ai polpacci sin sotto le ginocchia.
Un editto di Diocleziano annata 301 dC, cita ben 23 modelli di scarpe romane; tra questi le “caligae”, sandali militari con suola composta da tre strati di cuoio, cuciti e imbullettati con chiodi di ferro; il “camepagus”, riservato all’Imperatore, l’”udo” in pelo di capra, per i magistrati.
Dopo l’Impero Romano, le invasioni barbariche diffusero l’uso diuose (ghette-stivali a mezza gamba) in cuoio foderate di pelliccia.
Nel ‘300, alla faccia delle leggi suntuarie che predicavano sobrietà, la Francia lanciò le ridicole “poulaines”, dalla punta lunghissima e molla che spesso veniva allacciata al malleolo o al ginocchio (secondo la lunghezza) con una catenella.
In Germania invece furoreggiò sino al XVI sec. la “zampa d’orso”, dalla punta smisuratamente larga.
Dal ‘500 la pelle fu spesso sostituita dalla stoffa; nacquero vezzose scarpine per ambo i sessi, ricamate e tempestate di ammennicoli vari anche preziosissimi; allora c’erano anche le “chopine” (ritornate in auge nel 1940 e poi nel ‘70), con suola a zeppa; a Venezia erano considerate uno status symbol per le donne: più erano alte, più la madama era nobile.
Fratture dei malleoli a parte, le chopine divennero però ben presto malportate, indossate sempre più dalle prostitute che ne fecero uno sfacciato segno di riconoscimento professionale.
Nel ‘600, Luigi XIV decretò che i veri aristocratici dovessero indossare solo scarpe con tacco alto e possibilmente rosso. Ben presto quello divenne esclusiva prerogativa femminile e i maschietti tornarono con sollievo a scarpe basse con fibbia larga.
Nel Direttorio, gli abitucci diafani delle signore imposero scarpine in seta scollate e rasoterra dette “paperine” o “ballerine“; ma dal 1830 furono per ambo i sessi gli stivaletti chiusi con stringhe o bottoncini le calzature più diffuse sino al 1900, anche se nel 1875 l’Inghilterra iniziò a lanciar sul mercato i “mocassini” d’ispirazione indiana.
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