Dopo una giornata trascorsa con gli occhi rivolti all’ingiù per leggere pratiche e documenti, scrivere al pc, seguire brutte notizie su monitor e schermi, affrontare terrene, banali e solite grane, per disintossicarsi è bello la notte affacciarsi alla finestra e alzarli finalmente, quegli occhi, a guardare la Luna.
Pallida e luminosa, più dolce del Sole perché se lui è simbolo di forza, concretezza, razionalità, lei è introspezione, senso del sovrannaturale, della poesia, riflessione, ingredienti di cui l’umanità pare semprepiù carente.
La Luna rimarrà sempre un mistero, nonostante l’uomo sia riuscito a passeggiarci sopra seminando sui crateri sismografi, microfilm, palline da golf, bottigliette di Coca Cola, bandierine di plastica, dimostrando una volta di più che ovunque il Bipede Raziocinante passi debba lasciare segni tangibili della sua superba presenza con cumuli di spazzatura.
Ma per me resta sempre l’intatta Luna, quella che dialogava col Pastore Errante e sorniona non rispondeva alla domanda
Che fai tu Luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa Luna.
Anche ora continua a guardarci dall’alto, e credo che sia un po’ malinconica perché le mancano le poetiche dediche passate, sensuali come la dannunziana
O falce di luna calante che brilli sull’acque deserte
o la stranamente dolce definizione di un futurista come Luciano Folgore
…romantica Luna fra un nimbo leggero, che baci le chiome dei pioppi, arcata siccome un sopracciglio di bimbo…
Signora solo apparentemente incurante dei nostri dubbi e delle nostre cure, rimane serena lassù, la bella faccia tonda e un po’ attonita china ad osservare noi, sempre più simili a formichine omologate costrette a camminare in fila seguendo non più istinti, ma mode e comandi.
Talvolta si commuove, e per risvegliare la nostra fantasia tenta di stupirci vestendosi di rosso fuoco, o sembrando appesa apposta nel cielo da qualche Cupido che voglia ammaliarci: chi è che in una placida notte di chiaro di Luna non ha almeno sognato di poter dare e ricevere un bacio, e poi due e poi mille ancora?
La guardo e mi chiedo quanti sospiri d’amore corrisposto o di lancinante solitudine abbia ascoltato in questi millenni; quante lacrime e quanti sorrisi abbia tinto d’argento; quanta gioia e quanto dolore abbia carezzato e assorbito coi suoi raggi.
Perché la Luna, come l’amore e tutti gli altri sentimenti, è volubile. E della volubilità è il perfetto simbolo.
Varia il suo aspetto da pieno a tre quarti, da mezzo a unghia sottile; lunatico è detto chi cambia spesso umore e non per nulla dominato dalla Luna è l’ipersensibile e dolce segno del Cancro, capace di passare dal riso al pianto nel giro di un battito di ciglia.
Per tutto questo mi affascina la Luna, un po’ fata e un po’ strega: proprio come le umani passioni può dare emozioni, ma fare anche paura.
Regola maree, flussi, parti, semine e raccolti; però alla sua luce si svegliano pure i Lupi Mannari, si acuiscono i mali della mente.
Otello, subito prima di tirare il collo a Desdemona, diceva “E’ colpa della Luna; quando si avvicina di più alla terra rende gli uomini folli”.
In questi ultimi tempi deve essersi avvicinata un po’ troppo, vista l’imperante e collettiva pazzia che ci circonda.
Continuo a guardarla, e ricordo l’Ariosto quando raccontava che sulla Luna finiscono tutte le cose perdutee dimenticate dagli uomini: ideali, lumi della ragione, giuramenti, progetti, reputazioni, onestà, giustizie, obiettività, amori, senno, promesse, amicizie…
E riabbassando gli occhi a terra realizzo di colpo che se Astolfo ci tornasse ora, sulla Luna, troverebbe il materiale aumentato a dismisura.
Dopo una giornata trascorsa con gli occhi rivolti all’ingiù per leggere pratiche e documenti, scrivere al pc, seguire brutte notizie su monitor e schermi, affrontare terrene, banali e solite grane, per disintossicarsi è bello la sera affacciarsi alla finestra e alzarli finalmente, quegli occhi, a guardare la Luna.
Pallida e luminosa, più dolce del Sole perché se lui è simbolo di forza, concretezza, razionalità, lei è introspezione, senso del sovrannaturale, della poesia, riflessione, ingredienti di cui l’umanità pare semprepiù carente.
La Luna rimarrà sempre un mistero, nonostante l’uomo sia riuscito a passeggiarci sopra seminando sui crateri sismografi, microfilm, palline da golf, bottigliette di Coca Cola, bandierine di plastica, dimostrando una volta di più che ovunque il Bipede Raziocinante passi debba lasciare segni tangibili della sua superba presenza con cumuli di spazzatura.
Ma per me resta sempre l’intatta Luna, quella che dialogava col Pastore Errante e sorniona non rispondeva alla domanda
Che fai tu Luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa Luna.
Anche ora continua a guardarci dall’alto, e credo che sia un po’ malinconica perché le mancano le poetiche dediche passate, sensuali come la dannunziana
O falce di luna calante che brilli sull’acque deserte
o la stranamente dolce definizione di un futurista come Luciano Folgore
…romantica Luna fra un nimbo leggero, che baci le chiome dei pioppi, arcata siccome un sopracciglio di bimbo…
Signora solo apparentemente incurante dei nostri dubbi e delle nostre cure, rimane serena lassù, la bella faccia tonda e un po’ attonita china ad osservare noi, sempre più simili a formichine omologate costrette a camminare in fila seguendo non più istinti, ma comandi.
Talvolta si commuove, e per risvegliare la nostra fantasia tenta di stupirci vestendosi di rosso fuoco, o sembrando appesa apposta nel cielo da qualche Cupido che voglia ammaliarci: chi è che in una placida notte di chiaro di luna non ha almeno sognato di poter dare e ricevere un bacio, e poi due e poi mille ancora?
La guardo e mi chiedo quanti sospiri d’amore corrisposto o di lancinante solitudine abbia ascoltato in questi millenni; quante lacrime e quanti sorrisi abbia tinto d’argento; quanta gioia e quanto dolore abbia carezzato e assorbito coi suoi raggi.
Perché la Luna, come l’amore e tutti gli altri sentimenti, è volubile. E della volubilità è il perfetto simbolo.
Varia il suo aspetto da pieno a tre quarti, da mezzo a unghia sottile; lunatico è detto chi cambia spesso umore e non per nulla dominato dalla Luna è l’ipersensibile e dolce segno del Cancro, capace di passare dal riso al pianto nel giro di un battito di ciglia…
Per tutto questo mi affascina la Luna, un po’ fata e un po’ strega: proprio come le umani passioni può dare emozioni, ma fare anche paura.
Regola maree, flussi, parti, semine e raccolti; però alla sua luce si svegliano pure i lupi mannari, si acuiscono i mali della mente.
Otello, subito prima di tirare il collo a Desdemona, diceva “è colpa della Luna; quando si avvicina di più alla terra rende gli uomini folli”.
In questi ultimi tempi deve essersi avvicinata un po’ troppo, vista l’imperante e collettiva pazzia che ci circonda.
Continuo a guardarla, e ricordo l’Ariosto quando raccontava che sulla Luna finiscono tutte le cose perdutee dimenticate dagli uomini: ideali, lumi della ragione, giuramenti, progetti, reputazioni, onestà, giustizie, obiettività, amori, senno, promesse, amicizie…
E riabbassando gli occhi a terra realizzo di colpo che se Astolfo ci tornasse ora, sulla Luna, troverebbe il materiale aumentato a dismisura.
Dai temi: – “Foscolo descrive le “urne dei forti” perché esse spingono gli uomini forti vivi a fare grandi cose per avere anche loro, un giorno, delle tombe belle e imponenti come quelle di Santa Croce” – “Non vorrei sembrare superstizioso, ma questo parlare sempre di morti e tombe proprio l’anno della Maturità, secondo me porta sfiga” – “Scrive l’Ortis che è un’opera autobiografica, dove racconta come andò in esilio di sua volontà e si uccise preso dalla disperazione”
Credo che l’Ugo si suiciderebbe volentieri ascoltando le parafrasi dei suoi versi. Dalle Grazie:
“Le amorose Nereidi oceanine a drappelli agilissime seguendo la Gioia alata”
Le Nereidi oceanine amorevolmente seguivano velocissime e a brandelli la Gioia alata.
(…)
E i travagli passionali del Foscolo? La celeberrima strofa finale del sonetto Alla sera, “e mentre guardo la tua pace dorme / quello spirto guerrier ch’entro mi rugge”, viene così parafrasata:
“e mentre guardo la tua pace dorme / quello spirito guerriero che dentro di me russa“.
(…)
Nei Sepolcri infine, raggiungiamo il culmine dell’alienazione mentale; non c’è modo di spiegare altrimenti le visioni del navigante che, veleggiando sotto l’Eubea, “vedea larve guerriere / cercar la pugna”, alias “magrissimi guerrieri / in cerca di pugni“, mentre “all’orror de’ notturni /silenzi si spandea lungo ne’ campi / di falangi un tumulto”, follemente parafrasato “nell’orrore del notturno / silenzio si sentiva nei campi / un rumore tumultuoso di pezzi di dita“.
E dopo ciò è anche possibile la domanda: “Ma Prof, che senso ha? Come facevano a raccogliere tante falangi, falangine e falangette e perché poi le scaricavano nei campi, eh, Pròof?”
L’INFELICE GIACOMO (PAG.100)
Leopardi gode della simpatia maturanda, perché suscita nei ragazzi dal cor gentile sentimenti di dolce compassione, stando almeno a ciò che scrivono nei temi:
– “Leopardi fu un poeta infelice perché brutto, gobbo e sfigatissimo” – “Aveva dei cari amici, come Pietro Giordani e Massimo Ranieri” (Antonio Ranieri) – “Leopardi era un po’ troppo intelligente perché a sette anni sapeva già il greco e il latino e studiava come un matto senza mai uscire di casa; per questo diventò malaticcio e gobbo” (…)
Dalla malinconia più totale, si passa a toni decisamente goliardici. Parafrasi de La sera del dì di festa:
“Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia”
Questo di sette è il giorno più gradito, pieno di sperma e di gioia. (…)
La follia colpisce anche gli animali leopardiani. Leggete cosa combina la gallina della Quiete dopo la tempesta:
“Passata è la tempesta odo augelli far festa e la gallina tornata in su la via che ripete il suo verso”
La tempesta è passata sento gli uccelli festeggiare e la gallina tornata sulla strada che imita il verso della tempesta (…)
Pascoli è un poeta che, come Leopardi, ispira tanta tenerezza agli studenti perché orfano, sensibile, solo e, a loro avviso, un po’ gnocco: Il gelsomino notturno ne è la prova lampante: “Gli amici di Pascoli si sposano e vanno a casa, mentre lui resta solo a guardare le api” (…)
“E le galline cantavano, un cocco!! ecco ecco un cocco un cocco per te!”
Siamo tutti perfettamente convinti che le galline possano essere degli animali mattacchioni (ricordate quella de La quiete dopo la tempesta?). Ma secondo voi cosa mai avranno da offrire delle pennute pollastre al Valentino vestito di nuovo? Indovinate un po’…
E le galline cantavano, una noce di cocco! ecco ecco una noce di cocco una noce di cocco tutta per te!
IL TENERO GUIDO (PAG. 125)
“Guido Gozzano faceva tanto il duro, ma in realtà aveva una paura boia della morte”.
Povero Guido! Sfortunello nella vita, nella salute, nel destino, nell’amore…
L’unica bella e giovane, Graziella, lo tratta malissimo andandosene senza neanche salutarlo, saltando aggraziata e vezzosa sulla bicicletta:
“Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio: la macchina il fruscìo ebbe d’un piede scalzo”
Le diciottenni d’oggi così spiegano la scena:
Non mi parlò. Salì in auto con un balzo, mise in moto facendo rumore passandomi sul piede nudo.
Tenere, delicate fanciulle in fiore, soavi più di mille Carlotte! Però anche Carlotta e Speranza si dimostrano delle adolescenti un po’ strane, visto che giocano “a volare” anziché “a volàno”; di un ragazzo “ammirano solo gli occhi, per via dell’educazione restrittiva dell’Ottocento” e “sospirano guardando le stelle del lago riflesse nel cielo“.
Strabiche? Pipistrelle?
Anche l’abbigliamento delle due damigelle lascia un po’ perplessi:
“Entrambe hanno uno scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande”
ovverossia
Tutte e due hanno addosso uno scialle, delle arance, dei fiori, degli uccelli, delle ghirlande.
Una volta azzardai dire che quegli scialli avevano la stessa fantasia dei mèzzari genovesi, ottenendo così il seguente risultato:
“Entrambe le fanciulle avevano un mezzadro genovese sulle spalle”
L’INFERNALE ALIGHIERI (PAG.146)
(…) Nel canto XII del Paradiso viene delineata la figura di San Domenico, la cui madre si chiamava Giovanna; Dante, volendo sottolineare il significato etimologico del nome “Giovanna” che è “colei che vive nella grazia del Signore”, nel verso 80 scrive:
“O madre sua veramente Giovanna!”
e gli studenti parafrasano:
1) Oh che sua madre si chiamava veramente Giovanna! 2) Oh che Giovanna sua madre era sul serio Giovanna! 3) Oh sua madre Giovanna Giovanna davvero!
Se un commissario, a questo punto, osa domandare loro: “Sì, ho capito che si chiamava Giovanna; però voglio sapere COSA vuol dire “veramente Giovanna”!”, si sente rispondere: “Beh, che non aveva un altro nome, che so, Francesca, Teresa…” (…)
Ma i maturandi fanno di tutto per sottolineare il fatto che il personaggio preferito da Dante sia, senza ombra di dubbio, Beatrice, fanciulla della quale il poeta s’innamorò sin da bambino, adorandola fino alla di lei morte, e anche dopo. Ora, nel Paradiso, sono di nuovo insieme…
III vv. 1-3 Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto, di bella verità m’avea scoverto, provando e riprovando il dolce aspetto
Beatrice, quel sole che per primo mi aveva fatto innamorare, aveva scoperto per me la bella verità del suo petto, dopo varie prove io avevo visto quel dolce aspetto
Oh la sublime visione! Però Beatrice, che legge benissimo nell’animo di Dante, si secca un po’:
V vv. 88-89 Lo suo tacer e ‘l tramutar sembiante puoser silenzio al mio cupido ingegno
Il fatto che Beatrice stette zitta e cambiò espressione mise a tacere il mio pensiero lussurioso
Ma la dolce figlia del Portinari si riprende subito e, amorevolmente, si rivolge al suo poeta sussurrandogli:
V v.1 “S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore”
“Se io ti arrostisco nel caldo dell’amore”
tenere parole dette forse mentre lo fa ruotare sensualmente su uno spiedo?
Ad un tratto però, probabilmente esasperata dal fatto che Dante non faccia altro che fissarla come un ebete, sempre secondo i maturandi sbotta dicendogli:
XXI v.16 Ficca di retro gli occhi tuoi la mente
Ficcati gli occhi dietro la testa!
ma l’Alighieri, imperterrito, continua ad ammirarla estasiato, definendo in tal modo l’effetto che Beatrice ha sulle sue facoltà intellettive:
XXX vv. 26-27 Lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema
Il ricordo del suo dolce sorriso fa diventare scema da sola la mia mente
sinché Beatrice, ormai totalmente sconvolta:
XXXI vv. 92-93 Sorrise e riguardommi: poi si tornò nell’eterna fontana.
Mi sorrise, mi guardò di nuovo: poi si gettò per sempre nella fontana
e tutte le Anime Beate all’unisono, intonarono il loro inno nazionale: Funiculì Funiculà.
XIV vv. 61-62 Tanto mi parver subiti e accorti e l’uno e l’altro coro a dicer: “Amme!” (Amen)
Tanto mi sembrarono veloci e attenti sia un coro che l’altro a dire: “Jamme!”
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