Molti sono gli aneddoti legati alla grande Storia della Musica che lì si svolsero; ma due, misconosciuti, ne esulano e valgono la pena di esser raccontati.
Nella stagione estiva il Teatro era chiuso alle rappresentazioni liriche, ma qualche volta il ridotto veniva aperto per ospitare speciali conferenze o spettacoli particolari, degni di essere seguiti dalla popolazione tutta.
Nel 1830 giunse a Genova da Parigi il medico italo francese Tadini; allora i dottori solevano fare pubblica propaganda alla loro professione mostrando non solo ai colleghi, ma anche a giornalisti e semplici cittadini, le loro tecniche rivoluzionarie.
Tadini era un oculista e si era specializzato nella rimozione ambulatoriale della cataratta.
Il 10 luglio, nel ridotto del Carlo Felice affollato da medici, giornalisti e curiosi, eseguì un intervento su tal Carlo Gandolfo, portinaio del Monastero delle Turchine, reso praticamente cieco appunto dalla cataratta.
Sdraiato il paziente su un lettino il medico, nel silenzio tombale degli astanti praticò la prima incisione all’occhio destro, e il Galdolfo urlò.
Un urlo raccapricciante, altissimo, che si andò a mescolarsi ai fantasmi degli altri acuti di ben diverso stampo e tono a cui erano abituati gli stucchi e i velluti del Carlo Felice, e che si udì sin in piazza De Ferrari.
In ogni caso la”Gazzetta di Genova” il 14 luglio raccontò che “l’operazione fu coronata dal più felice successo, l’ammalato avendo subito veduto e nominato i diversi oggetti che gli furono presentati. L’illustre oculista è tuttora a Genova, perciò i ciechi e quelli affetti da malattia agli occhi che vorranno consultarlo, potranno portarsi all’albergo “Piccolo Parigi”, piazza San Siro, ov’egli è alloggiato.”
In quanti vi andarono, non è dato saperlo.
Altra storia particolare, narrata stavolta dal “Caffaro”, accadde al Maestro Pietro Mascagniquando nel 1905 diresse al Carlo Felice la sua opera “Amica”.
Oggi, quando si assegna un riconoscimento a qualche esponente dell’arte e della cultura, le cose si fanno in grande: comunicati stampa, conferenze, interviste, servizi televisivi, foto, titoli sui giornali, alleluia collettivi che celebrano pubblicamente l’avvenimento.
Allora era diverso.
Accadde infatti che durante il primo atto dell’Amica il Mascagni, intento a dirigere nella penombra orchestra e cantanti, si sentì toccare il sedere da una mano.
Rimase impassibile.
Il palpeggio si fece più insistente, anzi, la mano iniziò a frugargli insistentemente nella tasca posteriore dei pantaloni. Il Maestro, gran professionista, senza potersi né girare né interrompere, silimitò ad agitare un po’ più veloce la bacchetta trasformando un adagio in allegretto.
Solo durante l’intervallo scoprì che il palpeggiatore misterioso altri non era che l’Impresario del Carlo Felice, Daniele Chiarella, il quale gli aveva voluto donare a nome della Superba una grande e preziosa medaglia d’oro.
Però, da buon genovese, aveva voluto farlo senza sciâto, ma con estrema, modesta e pudica discrezione.
La signora Giggia, moglie di Steva nella commedia I maneggi per maritare una figlia, volteggiando affannata in mezzo ai bagagli ingombranti il salotto Luigi Filippo, annunciava in tono superbo “Oggi noi si va in villa”. E Steva-Govi ribatteva “Villa! Bisogna vedere che roba. Ragni, mosche e sinsae . Cosa c’è di zanzare! Dice che è l’acqua. L’anno passato siamo stati quindici giorni senz’acqua, andavamo a prenderla in un paese vicino: l’aegua a no gh’ea, ma e sinsae scì. Erano lì che aspettavano l’acqua.”
La “villa”, per i genovesi di allora, era la casa color pastello polveroso, spesso arricchita d’una torretta, sita nell’entroterra e circondata da un terreno più o meno vasto; che fosse la grande tenuta d’antica proprietà familiare, la palazzina presa in affitto o semplicemente la fattoria della vecchia balia non importava: dopo luglio, “mese dei bagni“, quasi tutte le famiglie si trasferivano da Genova in campagna.
E “campagna” allora era ovunque. A Novi, Serravalle, Busalla andava di solito la grande borghesia industriale; tra Masone e Ovada si sistemavano le famiglie di avvocati, medici e docenti universitari; Voltaggio, Mignanego, Savignone e Sarisola erano le mete preferite dai commercianti. Ma anche Sant’Olcese, Crocefieschi, Montoggio, Bargagli, Torriglia, Fontanigorda, Gorreto erano affollatissime, così come la zona del Righi e le valli di Staglieno e Molassana. Persino Marassi e Quezzi, pare incredibile, erano veri gioielli di verde, pieni di ville borghesi ma anche di palazzi nobiliari circondati da parchi e il Fereggiano scorreva limpido e vivace in una Valletta bellissima, creando un paesaggio bucolico-alpestre da cartolina.
I genovesi raggiungevano la campagna con treni, vetture, tramvaietti, omnibus, carrozze e carri. Orlando Grosso, raffinato giornalista che scriveva sulla “Gazzetta di Genova” all’inizio del Novecento, raccontava: “S’incontrano muli che portano bauli sul basto e buoi che trainano, per sassose salite, slitte cariche di masserizie, perché l’andare in campagna assume spesso l’aspetto di un mezzo trasloco. Sui cumuli di cesti, di involti, di bauli, si trovano canarini in gabbia e gatti che miagolano entro cestini: un vero esodo familiare”.
La prima settimana trascorsa in villa era iperattiva; le padrone di casa, assoldate le donne del luogo, si lanciavano frenetiche a spazzar via ragnatele e polveri ammassate durante l’inverno. Una volta che tutto era pulito e ordinato, la vita piombava in una tranquillità un po’ assonnata interrotta da minimi avvenimenti: visite di amici arrivati dalla città alla ricerca di un po’ di frescura; chiacchiere fatte all’ombra dei pergolati di fronte ad un bicchiere di sciroppo d’amarena; interminabili partite a bocce, alla morra, a volano. E piccole feste accompagnate dal suono di una fisarmonica, pranzi e cene scandite dal rintocco delle campane di mezzogiorno e dell’Ave Maria; raccolta di frutta con conseguenti confezioni di marmellate e liquorini casalinghi in quantità industriale, oltre beati, interminabili ozi in giardino.
Da notare che in villa stavano fisse le donne e i bambini; i mariti-padri restavano in città a lavorare, perché un mese di ferie allora era considerato una follia: era credo comune che solo i maschi malaticci e fannulloni potessero permettersi più di quattro giorni di vacanza filati… Così ogni sabato sera, per ripartire la domenica, i sani e ligi lavoratori raggiungevano le loro tribù familiari con quelli che venivano scherzosamente chiamati “i treni dei mariti”. Gli scompartimenti di tutte e tre le classi brulicavano di uomini soli, appartenenti ad ogni ceto sociale, ma tutti indistintamente carichi di pacchi contenenti le mille cose che le loro gentili consorti avevano ordinato: “Ricordati di portarmi del filo di seta azzurro e dei guanti di cotone, e già che ci sei della liscivia, che qui costa troppo, sai che il negozio ne approfitta perché è l’unico; e poi compra degli acquerelli per tua figlia, li ha finiti, e prendi dal comò quella mia camicietta lilla, quella in seta, sì, ché l’ho dimenticata…”.
Il viaggio trascorreva sereno, fra chiacchiere di affari, donne, pettegolezzi, dritte di Borsa, antiquariato e commenti sul governo. Alla stazione i viaggiatori trovavano ad attenderli, schierati come plotoni, figli e mogli: e ogni volta i mariti non si sentivano solo Capofamiglia, ma Sovrani. Mentre le donne in villa trascorrevano il tempo cucendo, lavorando al tombolo, dipingendo, pirografando, insomma trafficando perennemente come api laboriose, i signori andavano per funghi, ma soprattutto si dedicavano alla caccia. Bardati con braghe di tela e cappellaccio di feltro guarnito da una piuma di ghiandaia, col fucile in spalla e il fido bracco al guinzaglio, setacciavano ogni prato, cespuglio, boschetto, alla ricerca di prede. E di solito tornavano a casa sudati, stravolti e col carniere vuoto, narrando alla prole di starne grosse come aquile o lepri di dimensioni elefantesche, sfuggite alla mira per colpa del vento, del cane, delle cartucce, del Padreterno in vena di dispetti…
Ma in quei soggiorni antichi, in quelle vecchie ville, i nostri nonni stavano bene nonostante non vi fosse nessuna comodità moderna: niente acqua corrente o elettricità; una ghiacciaia rifornita quindicinalmente; un pozzo; dei bigonci per il bucato e il vasino nel comodino da notte, in quel famoso ghirindon dove Steva trova chiuso il suo gilet (il gibbonetto di “gassetta e pomellu”) e, dopo averlo annusato con faccia nauseata, si sente dire dall’amorevole Giggia : “E dagghe un po’ de Colonia…”.
Tutti sappiamo che l’Epifania tutte le feste si porta via; ma i Genovesi un tempo proseguivano il noto proverbio dicendo …ma ven o matto de Carlevà che ne porta ‘na carrettà.
Infatti anticamente la città era rinomata per i suoi incredibili Carnevali goderecci e lussuosi durante i quali i cittadini si scatenavano, annientando la loro nomea di “riservati, parsimoniosi e austeri”. Per averne la prova basta leggere negli antichi Annali le cronache in cui stranieri illustri raccontavano come non esistesse nessuna città in Italia ove si festeggiasse il Carnevale in maniera tanto sfarzosa.
Nel 1200, ad esempio, Genova veniva invasa da mascheri d’ogni tipo, a piedi o a cavallo; persone d’ogni sesso, età e ceto sociale “per le vie ballavano su di una gamba sola la serendola, che sarebbe poi l’ariunda” (e noi ne sappiamo quanto prima, NdR)) “al suono melodioso et flebile di pifferi e simili istrumenti”.
Pure nel 1300 il Carnevale era celebrato in gran pompa; erano tempi, quelli, in cui i governanti erano obbligati ad emanar grida esortanti alla morigeratezza nell’ostentazione del lusso, vietando a tutti i cittadini d’indossare abiti troppo sontuosi o “più di 6 anelli per mano”. Figuratevi quindi la fastosità di quel periodo in cui, con la scusa di mascherarsi, uomini e donne anche di ceto basso spesso s’indebitavano sino al collo pur di poter indossare costumi tali da suscitare stupita ammirazione.
Carnevali passati alla storia furono quello del 1403 al quale partecipò, in una festa a Palazzo Ducale, l’Imperatore bizantino Manuele Paleologo; quello del 1415, nefasto, che a causa dei troppi lumi e falò si concluse con un incendio che incenerì tutta la Contrada di San Siro. E quello di del 1416 che vide, come ospite d’onore invitato dal Doge, il re di Cipro Giovanni II insieme a tutta la sua corte.
Nel 1500, dentro i palazzi patrizi si svolgevano feste rigorosamente “a tema” mentre il popolo, mascherato nei modi più bizzarri, si divertiva nelle strade e soprattutto di notte, alla luce di mille lanternette che illuminavano vicoli e piazzette, ballando, cantando e ratellando (litigando) coi ragazzini che lanciavano uova e verdure marce sui personaggi più ridicoli. Tipico del periodo era il “ballo del bastone” che nessuno si è mai sognato di descrivere dettagliatamente, ma che doveva essere decisamente osceno se più volte le autorità tentarono di proibirlo poiché, come dice una nota degli Inquisitori, veniva ballato esclusivamente da “homini immorali e bagasce”.
Ma accadde presto che, nella sarabanda generale, iniziassero a proliferare furti, omicidi e “licenze” varie.
In molti approfittarono dell’atmosfera da baccanale e del fatto di essere mascherati e coperti dai domini (e quindi irriconoscibili) per sistemare conti in sospeso o semplicemente organizzando orge, violenze di gruppo o atti vandalici. Caddero nel vuoto le innumerevoli grida in cui venivano proibite “maschere complete sulle facce, lancio di pesci fradici e ova di gesso; danze oscene et versi scurrili che mettano alla berlina nobili e governanti”.
Invano le Autorità condannarono “l’usanza dei mimi, che vagano qua e là colla faccia velata, commettendo molti delitti”, omicidi e stupri compresi. Parlarono al vento insigni letterati come Uberto Foglietta, mettendo in ridicolo le follie carnascialesche dei suoi concittadini; indarno frati predicatori tuonarono dai pulpiti prevedendo gufescamente pene infernali: i genovesi gaudenti preferivano sopportare frustate e gogna, venire scherniti pubblicamente sui testi letterari, vendersi l’anima a Belzebù pur di continuare a festeggiare a modo loro il Carnevale.
Alla fine del XVI secolo fiorì fra i giovani nobili l’usanza di far rivivere, attraverso spettacolari tornei, l’eroiche gesta dei loro antenati. Inoltre grande successo aveva il Corso Mascherato, antenato del Carossezzo, che partiva dalla spianata del Bisagno (più o meno davanti a Brignole) e terminava in Piazza Acquaverde.
Una sfilata di cocchi e portantine dipinte di rosso, azzurro e oro trasportavano dame e cavalieri che lanciavano uova sugli spettatori, proprio come i monellacci dei vicoli; solo che, noblesse oblige, in questo caso le uova erano piene di acqua profumata alla viola. Il popolo, ai lati della sfilata o affacciato alle finestre, ricambiava tirando sulle coronate teste uova piene di farina o durissimi coriandoli fatti di gesso: situazione questa dipinta da Domenico Piola sul soffitto della Stanza d’Inverno a Palazzo Rosso.
Nel 1600 iniziarono a comparire le tipiche maschere genovesi; il Dottore, brandente un enorme clistere e che parlava un delirante linguaggio mescolantelatino, francese, italiano e genovese. Poi la Balia, prestante giovanotto tettuto e naticuto a botte di stracci sotto i vestiti, che stringeva al seno un furibondo gatto stretto nelle fasce e con tanto di cuffietta. Il Marchese e il Paisan (il Contadino), in perenne lite fra di loro ma coalizzatissimi quando c’era da prendersela con qualcun altro.
Pure la terribile peste che annientò allora gran parte dei genovesi, divenne ovviamente protagonista del Carnevale attraverso mostruose maschere di Morti roteanti falci, inquietanti Medici e laidi Monatti.
Ma, passata quella, nel Settecento arrivò un arcadico tripudio di ninfe, satiri, pastorelli e pastorelle con pecorelle vive in braccio, sostutitui poi dalle maschere della commedia goldoniana: Pantalone, Arlecchino, Rosaura eccetera.
E nell’Ottocento nacque il vero, ma ormai dimenticato simbolo del Carnevale genovese: il Festone, pubblica festa da ballo in maschera che si teneva in un palazzo della famiglia Giustiniani.
Tutta Genova, per tutto il periodo carnascialesco, si ritrovava al Festone dalle sette di sera sino a notte inoltrata, pagando centesimi 80 a serata o 8 lire per l’abbonamento. I Mascheri, nobili, borghesi, proletari tutti insieme, trascorrevano notti intere a danzare, a cantare gli stornelli satirici e sfottenti detti strapontin, divorando – come recita un volantino pubblicitario dell’epoca – “ogni sorta di sorbetteria” e, l’ultimo giorno, quintalate di ravioli, mentre l’orchestra suonava “deliziosa walse, volubili contraddanze, rapide alessandrine, gighe e perigordini“.
Nel 1829 l’Impresario del Carlo Felice iniziò una spietata concorrenza organizzando, nelle sale del ridotto, i primi “Veglioni in Maschera“. Il Festone reagì dimezzando i prezzi, rinnovando i locali e organizzando allettanti lotterie i cui premi erano solo oggetti d’oro: bracciali, spille, catene e orologi. Ma la decadenza era inesorabile; il 17 gennaio del 1835 la Gazzetta di Genova scriveva: – “Il Festone iersera fu invaso esclusivamente dal popolino che inscenò nelle sue sale un vero prebuggiun“, alias una gazzarra disgustosa piena di sbronze e risse.
Così i genovesi, orfani del Festone, l’anno dopo si consolarono con il Carossezzo, ossia una grande sfilata di carri allegorici.
Era una manifestazione più imponente di quella di Viareggio (che è molto più giovane, essendo nata nel 1873). Personaggi principali erano il Marchese e il Paisan (chiamato poi Baciccia, Bacci o Baciccin) che declamavano, tra le sghignazzate della gente, strapontinmordaci e irriverenti sulla faccia dei politici e amministratori cittadini i quali, obbligatoriamente e senza alcuna ritorsione, subivano e sopportavano rassegnati. Al Paisan si aggiunse la “Nena”, pastorella impegnata con lui in maliziosissimi duetti cantati. A lui che domandava “Dime un po’ comme son faete/ quelle cose ch’ei in sen” (dimmi come son fatte quelle cose che hai nel seno) lei rispondeva trillante “Quelle cose ch’emmo in sen/e son faete a pugnattin;/ dime un po’, voi bello zueno,/comme l’ei o..berettin” (Quelle cose che abbiamo in seno sono fatte a pentolino; ditemi un po’ voi, bel giovane, come avete il…berrettino).
L’ultimo grande Carnevale genovese fu quello del 1881, organizzato dalla Società Ginnastica Cristoforo Colombo. Il programma comprendeva balli al teatro Carlo Felice, un circo “indio-giapponese”, rappresentazioni di marionette, “Ruota della Fortuna”, pentolacce, cinedoscopio e una “Fiera fantastico-enologica”. Fu un successo: 150.000 partecipanti su 190.000 abitanti, una manifestazione entusiasmante che raggiunse il culmine alla sfilata del Carossezzo che aveva come tema un ridondantissimo L’Embriaco di ritorno dalla Terra Santa.
E sempre invenzione goliarda fu il Gran Premio Indianopolis, temeraria corsa sui carrettini a rotelle, svolta alla presenza delle massime Autorità cittadine civili, militari e religiose, che partiva dal Monte Righi, scendeva in via Cabella, attraversava piazza Manin per precipitare, in rapidissima discesa, a Corvetto e infine frenare (più o meno) davanti al palco delle Autorità.
I veicoli avrebbero dovuto ricordare le future professioni (per esempio a forma di barelle per gli studenti di medicina vestiti da squinternati chirurghi), ma spesso la fantasia aveva il sopravvento così si potevan vedere sottospecie di navi vichinghe a rotelle pilotate da baldi giovani dall’elmo cornuto, o carri da pionieri guidati da improbabili indiani e cowboy.
Una curiosità; il Gran Premio Goliardo non ebbe mai una Prima edizione, né una Seconda, né una Ventesima: furon tutte, ma proprio tutte, la Sessantanovesima.
Sino agli anni Sessanta, a Carnevale, gli universitari entravano gratis al cinema bastava presentarsi con Papiro in mano e cappello goliardo in testa. Infine, ogni Giovedì e Martedì Grasso, le scuole femminili della città gestiti da monache (come Dorotee o Marcelline) vivevano in pieno marasma poiché era un classico il venire letteralmente assediati da Goliardi intenzionati a “rapire” le studentesse all’uscita, che ottenevano la libertà solo aver pubblicamente pagato il riscatto: un bacio.
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