– Le case liguri dei paesi sul litorale venivano tinteggiate con colori forti e diversi perché i marinai e i pescatori rientrando potessero subito riconoscerle da lontano.
– Il 26 giugno del 1886 per la prima volta a Genova un ristorante appese fuori dalla porta d’ingresso un cartello con su scritto il menù e i prezzi. Era il “Costa” di via Carlo Felice.
– In piazza Corvetto, secondo il dissacrante humour dei genovesi, anche le 3 statue presenti comunicano, ma stavolta solo a gesti.
Mazzini, con carta in mano e espressione preoccupata, avrebbe urgenza di fare…un bisogno, ma non vede u lêugo
Allora Vittorio Emanuele II gentilmente gli offre il suo cappello.
E Scià Mariali guarda con solenne disapprovazione, scandalizzata per la loro goliardata.
Razza mugugnona per definizione e poco incline a smancerie, quella genovese sin dalle sue origini ha sempre mostrato una spiccata simpatia e una profonda stima nei confronti dei gatti.
Remo Borzini li definiva la “presenza soffice, misteriosa ed irreale” di Genova, indispensabile a una città dotata di grande porto, stretti vicoli e piena sempre di tanta bella rumenta attiratrice di topi.
I gatti erano apprezzati perché non erano dei mollaccioni mangiapane ad ufo, ma si guadagnavano vitto e alloggio lavorando dignitosamente; una legge della Repubblica (mantenuta anche sotto i Savoia) li assumeva in pianta stabile negli Archivi di Stato per salvaguardare dai sorci la carta dei documenti. Come stipendio cibo, cure mediche, protezione e caldi posti in cui dormire.
I potentissimi Fieschi avevano nello stemma un gatto; il grande Magnasco nel dipinto “I frati attorno al fuoco”, ritrasse i religiosi radunati vicino al camino, con attorno tanti gatti, e persino il rude ammiraglio Andrea D’Oria volle essere ritratto assieme al suo gatto Dragut. Da bravo uomo di mare, sapeva che “chi alleva de gatti no alleva de ratti”; lo stesso Cristoforo Colombo volle su ognuna delle 3 Caravelle due gatti, maschio e femmina, che moltiplicandosi avrebbero difeso cambusa e merci.
(Anonimo veneto – Ritratto di Andrea Doria)
Inoltre, ai capitoli 65 e 66 dell’antico testo di leggi del “Consolato del Mare” (tradizione giuridico marittima del Mediterraneo, in uso sin dal XIV sec.) stava scritto che ogni Comandante di Bordo aveva il “dovere di procurarsi gatti”, affinché i topi non danneggiassero il carico.
Veniva anche precisato che, se i roditori avessero guastato la merce “prima” che il Comandante si fosse procurato i gatti e mentre la nave era ancora in porto, non doveva pagare i danni: ma se il “sinistro” fosse avvenuto in navigazione e si fosse provato che i gatti non erano stati imbarcati, allora il Comandante non solo doveva risarcire personalmente tutto il carico rovinato, ma anche finir sotto processo per gravissima “Colpa Nautica”.
Una volta a bordo, e di solito in gran numero, i gatti venivano affidati alla responsabilità di un nostromo in seconda detto “u penéise”, il pennese, il quale oltre la responsabilità di cime, nodi e vele, aveva quella di star dietro – a rischio licenziamento – alle gnaolanti e unghiute creature, solitamente molto poco amanti dall’acqua in genere.
Doveva tenerli calmi in caso di tempesta ed evitare che cadessero in mare; badare che avessero sempre la loro razione di cibo, premiarli ogni volta che prendevano un topo, occuparsi della loro salute, difenderli dagli scherzi dell’equipaggio e soprattutto, ogni volta che si arrivava ad un porto, radunarli e chiuderli in un posto sicuro all’interno del bastimento onde evitare che scappassero, rifugiandosi sulla terra ferma.
E ammettiamolo, doveva essere un vero spettacolo vedere il pennese, prima di ogni attracco, lanciarsi all’inseguimento di una ciurma di gatti che velocissima s’infilava nei pertugi della coffa, si nascondeva sotto pile di cime o s’arrampicava sino in cima agli alberi del veliero.
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