E la chiamano Voce degli Angeli: le gaffe dei bambini

Ogni tanto penso che i bambini piccoli siano esseri strani: li osservo sempre con un po’ di sospetto, e confesso di temerli molto.

Forse perché non ci sono abituata, non ho figli. In compenso, oltre un nipotino legittimo, ho un plotone di figli di amiche che hanno deciso di eleggermi Zia ad honorem.

Non so perché, ma si tratta di pargoli i quali, appena nati, hanno subito provato nei miei confronti un’attrazione irresistibile, decidendo di fare il ruttino, con relativo rigurgito, solo sulla mia spalla, disdegnando quella dei legittimi genitori. Oppure, ignorando i rapporti di sangue che implicherebbero una particolare intimità, si rifiutavano di fare  popò per giorni, restando nell’attesa di vedermi e di essere da me presi in braccio.

Riflessi condizionati? Può darsi.

Certo che gioie me ne hanno date, i miei nipoti ad honorem; soprattutto il giorno in cui pronunciavano la prima parola possibilimente di fronte a tonnellate di nonne e zie vere.

I primi balbettii stile “am, ma, ba, pa..”, che venivano entusiasticamente tradotti  come “mamma” o “papà”, venivano immediatamente declassati nel momento in cui pronunciavano in modo chiarissimo “mitì”; certo qualcuno diceva pitì, ma non si può pretendere tutto dalla vita.

I familiari veri ci restavano ovviamente molto male ed io li consolavo dicendo:
-”Ma su, l’ha detto solo perché è un nome facile. Vedrete che fra poco parlerà in modo perfetto dandovi tante soddisfazioni…”.

Infatti i bambini cominciavano ben presto a parlare, con quella  che per tono e contenuti è da sempre defintita la Voce degli Angeli

Ricordo Violetta, una splendida bimba di due anni e mezzo; bionda, capelli a boccoli, occhi azzurri, boccuccia a cuore e pelle di porcellana.
Era talmente bella che le persone si fermavano per la strada a guardarla e tutte, chinandosi su di lei, le dicevano:
“Ma che amore di bambina! Ma che bambolina! Ma come ti chiami, carina?”
E la pargoletta, vestita di sangallo rosa confetto, rispondeva serissima: ”Filippo”.

Violetta crescendo, sviluppò un notevole senso logico, tanto da far supporre una sua futura carriera politica.
A sei anni,  iniziata la scuola da una settimana, un giorno chiese a suo padre:
”Papino, pensi che la maestra mi possa sgridare anche se non ho fatto niente?”
”Ma no, ci mancherebbe altro!”
”Bene: allora non faccio i compiti”.

Ben altro accadde invece alla mamma di Fabrizio, 5 anni.
Aveva invitato gente a pranzo; le sedie attorno al tavolo erano molto sottili e strette, e dato che tra gli invitati c’era anche una signora grassissima, la sventurata madre – pensando ad alta voce di fronte a suo figlio (errore imperdonabile) – disse sarcastica: ”Per la signora Rossi dovrò mettere un’altra sedia dato che per lei, di queste, ce ne vorrebbero due!”.
E così, quando arrivarono gli ospiti, Fabrizio si precipitò immediatamente dalla signora Rossi domandandole pieno di curiosità:-“Ma sei tu la signora con due culi?”.

Andrea, a 7 anni, stava attraversando un poco in ritardo la fase dei “perché”: faceva domande a raffica a tutti e su qualunque argomento, domande alle quali bisognava rispondere per forza, anche perché dimostravano un notevole interesse culturale.
Un giorno si recò con sua madre a Carrù, a trovare una signora di nome Teresa; mentre passeggiavano nei campi attorno alla casa della Teresa, Andrea, indicando degli alberi, chiese alla mamma:
”Cosa sono?”
”Pioppi”
”Di chi sono?”
”Di Teresa”
”A cosa servono?”
”A fare la carta”
”Chi ha inventato la carta?”
”Credo gli Egizi…Mah…”
“Avevano un capo gli Egizi?”
“Ma certo”
”Come si chiamava?”
”Faraone”
E via di seguito.

Dopo due o tre giorni, la mamma di Andrea ricevette una telefonata dalla maestra di suo figlio:

-”Signora, lunedì ho fatto fare un temino in classe dal titolo Come ho trascorso la domenica. Lei ora mi dovrebbe spiegare ciò che ha scritto Andrea:
Ho trascorso la domenica passeggiando con la mia mamma in un campo di carta. La carta era di Teresa, il Faraone di Carrù”.

© Mitì Vigliero

Fisionomia, questa sconosciuta

A Monica, amica ritrovata e “riconosciuta” ;-*


Ho sempre ammirato quegli individui che vedono una persona per la prima volta e possibilmente per non più di 3 minuti, che però sono in grado dopo 7 mesi di descriverla accuratamente a Chi l’ha visto.

Io mi dimentico le facce, sempre.
Oppure ricordo le facce, ma non riesco ad avvitarle sul giusto collo.

E i nomi? O insisto a chiamare “Fabrizio” uno che si chiama “Maurizio” (colpa mia se ha la facca da Maurizio?), oppure proprio niente, nulla, il vuoto, tabula rasa. E non posso sempre chiamare tutti con un generico tesoro

Spesso mi succede di venir salutata per strada da sigori o signore di cui non ricordo affatto nè il nome né il viso: eppure loro mi conoscono benissimo, pare.

E ogni volta si creano imbarazzanti dialoghi farfugliati e vacui:

“Cara Mitì come va?”
“Bene! e lei?”
“Mi dai del lei, ora?”
“Scherzavo…Tutto bene?”
“Bene. E tu?”
“Io sto bene”

E poi?
Chi ha il coraggio di porre domande dirette?

L’ho sempre detto, io, che preferirei tanto vivere in quei piccoli, minuscoli paesi dove tutti si conoscono e, soprattutto, si chiamano tutti nello stesso modo, possibilmente con un diminutivo…
Un mio amico, Dario Giannozzi, descrivendo una volta gli abitanti di un paesino della Valdossola, disse:
“Lo spazzacamino comunale si chiama Merio; questo Merio non ha a confondersi col farmacista, che si chiama Merio. Neppure si deve confondere col dottore, col parroco, col sindaco, col messo comunale e col postino che si chiamano rispettivamente Merio, Merio, Merio, Merio e Merio.”

Ma per riconoscere una persona, non è sempre sufficiente ricordarsene il nome o il viso; il proverbio l’abito non fa il monaco è falso, perché l’abbigliamento ha spesso una grandissima importanza.

Infatti mi è capitato un inverno, all’uscita da un cinema, di incontrare un giovane avvocato che da anni viene al mare nella mia stessa spiaggia.

Egli, che teneva per mano una bella fanciulla bionda, mi salutò molto gentilmente.

Io rimasi un attimo interdetta perché, abituata com’ero a vederlo sempre e soltanto in costume da bagno, non l’avevo riconosciuto col cappotto.

Una volta capito chi era, gli dissi festante:
“O carissimo, scusami, non ti avevo riconosciuto. Sai, sono abituata a vederti sempre nudo!”

Evito di descrivere l’occhiata che mi lanciò la fanciulla bionda…

©Mitì Vigliero


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Cielo, che Gaffe!

C’è chi colleziona francobolli, chi tazzine, chi orologi; io da anni mi dedico a una collezione particolare: quella delle gaffe,  parola francese che in italiano può essere tradotta in “frase infelice, azione goffa”.

Il Gabrielli invece, nel Dizionario dello stile corretto scrive:
La gaffe è propriamente il raffio, il ronciglio; e in senso traslato vale sbaglio, abbaglio, balordaggine”.

Sorvolando sul raffio e sul ronciglio, termini che siete pregati di andarvi a cercare da soli sul vocabolario, è certo che le gaffe conducano sempre ed inevitabilmente a una brutta figura.

Esse sono paragonabili a piccoli virus di demenza improvvisa e passeggera che possono attaccarci in qualunque momento; e nessuno, ma proprio nessuno, ne è immune…

Dove mi rifornisco di materiale per la mia collezione di gaffe?

Ovunque, anche se le riunioni pubbliche, mondane e sociali ne sono una miniera inesauribile.

Ricordo per esempio un pranzo di nozze molto chic, in cui un’invitata chiese al padre dello sposo:
“Scusa, ma chi è quella bruttissima signora vestita di rosso?” e il padre dello sposo rispose con voce gelida: “La sorella di mia moglie”.
Al che l’invitata impallidendo rispose: “Oddio, perdonami…sono stata proprio scema a non notare subito la somiglianza…”.

Sempre a proposito di nozze giudico sublime l’avventura capitata a un avaro signore il quale, dovendo fare un regalo importante al nipote che si sposava, si recò da un amico antiquario.

Ogni oggetto gli sembrava troppo costoso sino a quando notò posato in un angolo uno splendido vaso di Rosenthal rotto in sette grandi pezzi.

“Quanto costa quel vaso?”, chiese all’antiquario che rispose “Niente, è rotto in maniera irreparabile…”
“E allora fammene un bel pacchetto” disse con un ghigno satanico il signore “Ho avuto un’idea geniale: stasera andrò da mio nipote per portargli il regalo. Appena entrato in casa farò finta d’inciampare e lancerò il pacco a terra; poi urlerò “Accidenti vuoi vedere che l’ho rotto? Un oggetto unico, preziosissimo, che non potrò mai più permettermi d’acquistare, ed io l’ho rotto!”.
Mio nipote aprirà il pacco, troverà i cocci: magari penserà che sono un vecchio rimbambito, ma io avrò fatto ugualmente una bella figura senza spendere una lira”.

E così accadde che il signore andò a casa del nipote, inciampò, fece cadere il pacco, si lamentò come Geremia e poi desiderò di morire quando il nipote, dopo aver aperto il pacchetto, vi trovò dentro sì sette cocci di vaso, ma accuratamente imballati e fasciati uno per uno, separatamente.

Anche i funerali sono un’occasione splendida per i gaffeur.

Una volta, durante il rosario celebrato per la moglie appena defunta, il marito inconsolabile picchiò una terribile gomitata contro la maniglia di una porta.
Mentre si massaggiava disperatamente la parte lesa, si sentì dire da un’amica: “Non preoccuparti; il dolore che si prova picchiando un gomito èviolentissimo, ma dura poco: infatti lo chiamano il dolore del vedovo…”.

E si sa che di solito i funerali sono l’unica occasione che spesso si ha per incontrare membri di famiglia che normalmente non si frequentano mai, e le cose da raccontare sono molte; gaffe fantastica fu quella fatta da un tale il quale, dopo aver assistito a un funerale di uno zio, si recò a casa della zia vedova assieme a tutti gli altri parenti.

Dopo ore di chiacchiere, guardò l’orologio ed esclamò: “Ehilà! Ridendo e scherzando abbiamo fatto le sei!”.

©Mitì Vigliero

E voi, avete mai fato una gaffe?