Pillole di Risorgimento: I Caffè del Quarantotto

Moti del Risorgimento 1848 ebbero spesso come “centro operativo” locali pubblici all’apparenza innocui e pacifici come i caffè.

Pedrocchi Padova

Partiamo dal Pedrocchi di Padova, conosciuto come “il caffè senza porte”;  l’8 febbraio 1848 fu teatro di una violentissima insurrezione di studenti e popolo contro l’esercito dell’Imperial Regio Governo. Una pallottola austriaca si conficcò nella parete della Sala Bianca, e ancora oggi è conservata come una reliquia.

foto pallottola pedrocchi

A Venezia invece il 17 marzo 1848 il Florian  vide una grandissima folla festeggiare Daniele Manin e Niccolò Tommaseo  che erano appena stati liberati dalle carceri austriache grazie a una rivolta popolare. Pochi giorni dopo i divani di quel caffè ospitarono i patrioti feriti in un’altra rivolta capeggiata dallo stesso Manin il quale, salito su un tavolino esterno al Florian, proclamò la Repubblica di San Marco. 

florian

I caffè veneziani durante il Quarantotto furono tra i più presi di mira dalla Direzione Generale di Polizia, perché mettevano in bella mostra a disposizione dei clienti i giornali allora più odiati dagli austriaci: lo Sferza e il Giornale di VeneziaEra una lotta estenuante; la Polizia faceva chiudere immediatamente l’esercizio colpevole di diffusione stampa nemica, il proprietario finiva sotto processo, ma appena riapriva si trovava il locale strapieno di avventori-patrioti tutti ostentatamente leggenti le odiate pubblicazioni, dimostrando così pubblicamente il loro odio nei confronti dell’Austriaca Gallina

biffi milano

Milano il Caffè delle Colonne a San Babila, “sull’angolo di via Bagutta col Baguttino”, dal 18 al 23 marzo 1848 fu una grande colonna della resistenza risorgimentale mentre nel Caffè Biffi nella notte del 10 marzo con una salvietta candida, una tendina verde e un pezzo di panno rosso venne creata una bandiera che Scipione Baraggia, giovane cameriere lì impiegato, mise a  sventolare prima sul portone centrale e poi sulle guglie del Duomo il 20 marzo mattina, quando ancora la città era in mano ai “todesch”.

Cova Milano  giardino interno 1864

La barricata che sorgeva sull’angolo della Corsia dei Giardini (via Manzoni) con la Contrada di San Giovanni alla Casa Rotta (attuale Piazza della Scala) fu allestita soprattutto con le seggiole, le panche, i banconi e i tavolini del Caffè Martini, frequentato abitualmente da Tito Speri, MazziniCairoli e Garibaldi. 
Nel Caffè Cova (che allora era all’angolo fra via Verdi e via Manzoni), i capi della rivolta progettarono, durante la Quarta Giornata, l’assalto al Palazzo del Genio in via Tre Monasteri (ora via Monte di Pietà).
Mentre erano riuniti a organizzare, una pallottola austriaca colpì un grande specchio del locale, che venne conservato  gelosamente per molti anni ed esposto al pubblico ornato di nastro tricolore e la targhetta “21 marzo 1848”. 

Caffè Gnocchi Milano

Particolarmente orrendo il fatto avvenuto il 22 marzo all’oggi scomparso Caffè Gnocchi,  dirimpetto la ferrovia Milano-Treviglio, stazione di Porta Tosa (Porta Vittoria).

Duecento soldati croati, dopo aver spaccato la porta ad accettate, vi irruppero urlando, cantando e ghignando, bevvero tutte le bottiglie, legarono il proprietario Leopoldo Parma e  violentarono in branco la moglie di lui, Luisa Gnocchi, incinta di sette mesi.
Poi linciarono il marito, facendolo a pezzi; infine depredarono il caffè, distruggendo e incendiando tutto ciò che non potevano portar via.

Torino, il Marchese Carlo Emanuele Birago di Vische  incaricò  l’Antonelli di progettare nel 1832, nella sua celebre casa triangolare detta “la fetta di polenta”, un locale che ospitasse  il Caffè del Progresso.
Il luogo (all’incrocio tra corso San Maurizio e via Verdi) era allora poco battuto e il Caffè, proprio per volere del Birago, divenne ritrovo prediletto dei più ferventi rivoluzionari  grazie alla sua struttura: aveva due piani alla luce del sole e due sotterranei (ricavati dalle profondissime fondamenta del palazzotto) dai quali partivano due infernotti, gallerie sotterranee utilissime in caso di retate poliziesche e relativa fuga dei cospiratori.
Una conduceva ai Murazzi di via Po, l’altra – pare – arrivava sino in piazza Castello, nei fondi di Palazzo Madama

Invece l’8 febbraio del 1848, in una saletta appartata del Caffè Nazionale gremita di giovani ansiosi, un commosso e anziano Roberto D’Azeglio (fratello di Massimo) lesse il proclama con cui Carlo Alberto annunciava al popolo la concessione della Costituzione. 

Addio mia bella addio

Infine, il 17 marzo 1848 a Firenze, seduto a un tavolo del caffè Castelmur in via Calzaioli – anch’esso oggi locale scomparso – l’avvocato Carlo Alberto Bosi scrisse di getto il Canto del Volontario: tre giorni dopo Bosi donò quel canto al primo battaglione dei volontari fiorentini che partiva per andare a combattere al fianco dei patrioti del Lombardo Veneto.
 
Da allora sappiamo cantarlo tutti, ma lo conosciamo con un altro nome: Addio, mia bella, addio.

© Mitì Vigliero 

Carnevale: Gli Scherzi Della Vecchia Goliardia Universitaria

goliardia

Quasi tutti gli scherzi apparsi nei film della serie Amici miei sono invenzioni della vecchia Goliardia universitaria italiana, come lo  schiaffo ai passeggeri dei treni; la popò “adulta” nel vasino dei bambini; presentarsi nei paesini, travestiti da operai e ingegneri, e progettarne l’abbattimento; sottrarre le macchine fotografiche alle turiste per immortalarsi i fondoschiena nudi e restituirle alle proprietarie…

Eccone alcuni (tratti da Bacco, Tabacco e Venere, SugarCo, 1976) , organizzati negli anni 1946 – 1960 dalle diaboliche menti universitarie durante il Carnevale.

L’Alexander furioso

Nel ‘46 il feldmaresciallo Alexander andò a Padova per consegnare il brevetto di partigiano agli universitari che avevano partecipato alla Resistenza.
Presenti tutte le massime autorità, il rettore Meneghetti invitò il capo della Sacra Triburtis goliarda, che conosceva perfettamente l’inglese, a tenere un discorso ufficiale.
Parlava da tre minuti quando Alexander furibondo abbandonò la tribuna.
Nessuno delle autorità presenti sapeva l’inglese, altrimenti avrebbero di certo impedito che il goliardo dichiarasse solenne: -”Quando le legioni di Cesare bivaccavano lungo il Tamigi, Londra era un accampamento romano; allora noi insegnammo ai figli di Albione a lavarsi e radersi…”

Il vescovo e i peccatori

A Belluno il goliardo Gengi Carnei, futuro cattedrattico di geologia, a Carnevale era solito mascherarsi da vescovo.
Poi si recava davanti alle Case Chiuse e afferrava per la giacca tutti quelli che stavano per entrare strillando: -”Fratello, ti prego, non peccare!”.
Molti cercavano di giustificarsi e lui, magnanimo, li assolveva pubblicamente.
Ma una volta un sacerdote lo vide e lo sgridò, ottenendo come risposta un fraterno:
-”Non mi rompa le balle, collega”.
Finì in questura, dove si dichiarò innocente: chiuso in cella uscì soltanto la mattina dopo col fagotto degli abiti da vescovo sotto il braccio.

Le fotografie

Alla fine del ‘50, grazie alle Polaroid, sbocciò fra i goliardi italiani la passione di fotografare i passanti e consegnar loro immediatamente le foto: se era un gruppo di turisti, la foto ritraeva un gregge di pecore; un signore in auto diventava un bambino su di un’ automobilina a pedali (”Visto come l’ho ringiovanita?”); una signora bruttissima si tramutava in una bella figliola molto svestita (”E’ come  la vedo io…”).
Il buffo è che nessuno si arrabbiava,  ma tutti insistevano a voler pagare le foto.

L’eco poliglotta

Uno scherzo in voga a Roma e Firenze, città pullulanti turisti.
Quattro goliardi ne adocchiavano uno (americano, francese, tedesco fa lo stesso), e il “capo” della banda, dopo averlo abbordato, lo portavano di notte nel centro di una piazza: -” Vedrà, da qui s’ascolta un’eco stupenda!”.
Mentre tre complici si nascondevano in punti diversi, lui gridava il suo nome; ovviamente, dai nascondigli , l’eco rispondeva in perfetta successione.
Poi toccava al turista il quale gridava il suo nome e si sentiva rispondere dall’eco insulti tremendi, gentilmente tradotti nella sua lingua originaria.

L’onorevole Bustarelli Bucci

Caratteristica dei goliardi era quella di aver sempre fame, sete, e manco una lira in tasca.
Durante il Carnevale del ‘64 a Firenze uno di loro visse tre giorni da nababbo facendo l’ Inauguratore.
Travestito da immaginario onorevole Bustarelli Bucci (nome ottenuto storpiando quello d’un noto politico  di allora) , insieme a tre portaborse muniti di grammofono con disco dell’inno nazionale, lungo nastro tricolore e un paio di forbici, girava per bar e pasticcerie.
Uno dei portaborse entrava e domandava al proprietario: -”E’ già stato inaugurato questo locale?”.
La risposta ovviamente era sì, e lui: -”Ma c’era un rappresentante del governo?”.
Ovviamente no.
A quel punto veniva proposta la presenza di Bustarelli Bucci il quale al pomeriggio, durante un ricevimento organizzato in suo onore nel locale, sarebbe stato “lietissimo di presenziare alla Reinaugurazione”.
Tutti ci cadevano: all’ora stabilita Bustarelli arrivava e, al suono di Fratelli d’Italia, come tutti gli onorevoli che si rispettino teneva un discorso solenne e completamente senza senso, tagliava il nastro tricolore, mangiava e beveva a sazietà.
In quei giorni inaugurò di tutto, perfino una Giulia Alfa Romeo della Polizia, con gli agenti impalati sull’attenti.

Gli scalatori di Via Indipendenza

BolognaCarnevale ‘63:  un gruppo di goliardi  perfettamente equipaggiati da scalatori  con corde, chiodi e piccozza, compì un’ascensione orizzontale sull’asfalto stradale dell’incrocio via Indipendenza-via Rizzoli.
Sotto lo sguardo di centinaia di spettatori e bloccando totalmente il traffico, terminarono l’impresa in lentissima cordata, strisciando sulle zebre e impiegandoci due ore esatte.

Bravo bravissimo

Genova. Epoca delle Case Chiuse.
Un nutrito gruppo di goliardi si appostava nascosto accanto a una di quelle, in fremente attesa di veder arrivare, come cliente, qualche distinto personaggio molto conosciuto in città.
Una volta entrato, il gruppo ne aspettava paziente l’uscita, salutandola con applausi e urla altissime:
-”Bravo bravissimo l’avvocato Mario Tizio! Bravo bravissimo il professor Paolo Caio!”

© Mitì Vigliero

Vi Racconto Le Strane Finestre Italiane

Nelle strade delle nostre città vale sempre la pena di camminare a volte con il naso all’insù, perché si possono fare piacevoli e curiose scoperte.

Questa volta, parliamo di finestre.

Per esempio a Bologna, in via Oberdan 24, esiste quella di Tago, il fedelissimo cane del Settecento di cui vi ho raccontato la storia qui.

tago

Invece ad Aosta, in piazza Roncas, su un lato della facciata di un antico palazzo è disegnata in trompe l’oeil una grande finestra da cui si affaccia una splendida dama bionda, vestita in azzurri abiti secenteschi, che ha vicino un  cagnolino bianco: si tratta di Esmeralda di Vaudan, moglie del marchese di Caselle Pierre Philibart Roncas(1629).
Il marito, innamoratissimo, volle che fosse ritratta così, in atteggiamento di affettuosa attesa, per poterla vedere ogni volta che si avvicinava a casa.

E a Firenze, all’incirca verso la metà di via Cavour, in un cortile interno a cinque metri d’altezza si trova una piccola finestra alla quale, tra due vasi di fiori, è affacciata una deliziosa bimba dai lunghi capelli che guarda il cielo tenendosi il volto fra le mani; non si muove mai di lì, perché è fatta di pietra.

foto-Stefano-Magherini

(Foto©StefanoMagherini) 

Altra finestra simile si trova a Roma, in via Tiburtina poco prima di  San Lorenzo.

Fa parte di quello  che viene normalmente chiamato “il Palazzo Decorato”,  costruzione già di per sé affascinante per il bizzarro miscuglio di stili che lo caratteristico: uno stranissimo incrocio fra palladiano, rinascimentale, barocco…
A questa finestra, una bifora, si affaccia un anziano uomo dalla fluente barba riccia, berretto settecentesco  e un binocolo in mano; alla sua destra un’elegante signora e alla sinistra una ragazza in costume ciociaro: tutti e tre guardano per strada e ridono con gusto.
Attorno a loro una ricca tenda di pizzo: la cosa particolare è che tutte e tre le figure, tenda compresa, sono in terracotta rossa.

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(Foto©SanLorenzoRoma)

Una leggenda racconta che si tratti del proprietario del palazzo il quale, assieme alla moglie e una servetta, guardando passare sotto la finestra un funerale, schernì ridendo il corteo diretto al Cimitero Monumentale del Verano. Dio allora lì punì pietrificandoli.

In realtà la curiosa opera è da attribuirsi a Giuseppe Maria Sartorio, nato a Boccioleto in Valsesia nel 1854 e misteriosamente scomparso nel Mediterraneo  nel 1922, nel corso di una traversata a bordo di un piroscafo tra la Sardegna e il Lazio.  
E proprio Sartorio aveva fatto costruire quel palazzo, aprendo al primo piano  la sua bottega – scuola di scultura.

Infine, sempre nella Città Eterna e stavolta in piazza Mattei, sulla facciata del palazzo che ha come numero civico il 17, c’è una finestra murata legata ad una storia che sta a metà tra realtà e leggenda.

finestra-murata-mattei

Verso la metà del 1500 uno dei tanti Marchesi Mattei, giocatore incallito, riuscì a perdere in una sola notte una somma ingentissima.

Il suo futuro suocero, furibondo, gli disse che mai e poi mai avrebbe dato sua figlia in moglie a uno squattrinato incosciente e buono a nulla come lui.

Il Mattei allora, punto nell’onore, in una sola notte si fece costruire davanti a casa la Fontana delle Tartarughe , una delle più belle di Roma.

All’alba mandò a chiamare suocero e fidanzata e, facendoli affacciare a quella finestra disse: “Vedete cosa può fare in così poco tempo uno squattrinato buono a nulla come me?”.

Lo suocero lo perdonò e lui, per simboleggiare la fine della sua vita da scapestrato, fece chiudere per sempre la finestra.

© Mitì Vigliero