Come nacque il Museo della Scala di Milano

 museo scala

Era il febbraio del 1911 quando a Milano piombò la notizia della vendita all’incanto della pregiatissima collezione di cimeli teatrali raccolti dall’antiquario parigino Jules Sambon; in un camerino della Scala si riunirono come cospiratori Umberto Visconti di Modrone, Ettore Modigliani, Corrado Ricci ed altri.

L’asta avrebbe avuto luogo a Parigi nell’aprile, il tempo stringeva, la richiesta finale era da svenire (700.000 lire), ma quella collezione “doveva” diventare proprietà di Milano.

Bisognava quindi trovare i soldi a  ogni costo; mobilitati tutti i cittadini,  vennero raccolte 450 mila lire ma un plurimiliardario americano, Pierpont Morgan, offrendone 500 mila riuscì ad accaparrarsi la collezione.

Modigliani si fiondò a Parigi per chiedere aiuto all’ambasciatore italiano Tommaso Tittoni il quale, non si sa con quali magiche arti diplomatiche, riuscì a convincere il Morgan a rinunciare all’acquisto.

Fu così che il Museo del Teatro alla Scala poté iniziare a nascere (fu inaugurato l’8 marzo 1913), arricchito in seguito da moltissimo altro materiale frutto quasi tutto di donazioni.

Osservando oggetti e ritratti lì esposti, vengono alla mente aneddoti della vita dei celebri artisti a cui sono legati.

Ad esempio il pianoforte di Franz Liszt, grandioso autore, gran bel giovinotto ma pure urtante dandy; prima di ogni esecuzione si sfilava lentamente i lunghi guanti gialli e li gettava con gesto sprezzante ai lati del piano dove stazionavano frementi dame pronte a pestarsi pur di raccoglierli e porgerglieli adoranti.

Le scarpette di raso di Anna Pavlova, eterea ballerina dal carattere dinamitardo; durante una tournée a Mosca di fronte ai Reali venne presentata a Rasputin, e lo trattò da cani.
Quando chiesero all’egocentrissimo monaco cosa ne pensasse, egli rispose: “Penso che in Russia o balla lei o ballo io: non c’è posto per tutti e due”.

E il testamento stilato da un già celeberrimo “infernaldivinoPaganini, terrorizzato dall’ennesimo violento litigio con la compagna Antonia Bianchi la quale gli spaccò amorosamente sulla schiena prima la custodia del suo amato “cannone” e poi tentò di far lo stesso col violino, che però un servitore velocissimo riuscì in corner a scipparle di mano.

Fra i ritratti,  quello di Adelina Patti, illuminato da un lampo duro negli occhi; ottima interprete, ma umanamente ambiziosa, calcolatrice e presuntuosissima, pretendeva come minimo 25 mila lire per serata.

Una volta in America ne chiese 50 mila; l’impresario statunitense ribatté scandalizzato: “Nemmeno lo stipendio del nostro Presidente arriva a tanto!”.
E l’Adelina sfottente rispose: “E allora faccia cantare il Presidente”.

Caratterino infernale e conscia del suo virtuosismo, amava modificare le arie originali delle opere con ghirigori e vocalizzi che mettessero in luce la sua voce.

Rossini, dopo averla sentita stravolgere la cavatina del Barbiere di SivigliaUna voce poco fa”, andò ad abbracciarla sul palco e di fronte a tutti, a voce altissima, con un sorriso a 72 denti le disse:
“Voce di paradiso, non c’è che dire; e gorgheggi degni d’un usignolo. Anche la musica che avete cantato non è cattiva. Di chi è?”

© Mitì Vigliero