L’Angelovergine che dipingeva da homo
(Elisabetta Sirani, autoritratto, 1658)
Era un tipico agosto bolognese, quello del 1665; afa e caldo infernali.
Ma in via Urbana 7, casa del pittore Giovanni Andrea Sirani, l’atmosfera era di cupo gelo, quello che fa venire i brividi all’anima.
Era preoccupato per la salute di Elisabetta, la sua primogenita ventisettenne che da un po’ soffriva di terribili dolori al ventre.
Adorava quella figlia; era diventata pittrice più famosa di lui e di riflesso dava lustro anche al suo nome e alla sua arte, che senza di lei darebbe stata abbastanza mediocre e, soprattutto, ignorata.
Ed era davvero brava, la Sirani; in un’epoca in cui le donne difficilmente emergevano nella vita quotidiana, figuriamoci in quella artistica, da quando aveva 17 anni nobili, religiosi, borghesi, popolani le commissionavano quadri: duchesse di Parma, di Baviera, di Braunschweigh, principi di Toscana avevano in casa almeno una sua opera.
Dipingeva ininterrottamente e velocissima (più di 200 quadri in 10 anni!) soprattutto donne e spesso autoritraendosi: Madonne, sante, eroine mitologiche e bibliche.
In ogni suo quadro poneva la firma su pizzi, gioielli, scollature, ossia su ogni cosa dimostrasse femminilità e sensualità.
Era anche un business vivente, Elisabetta; il padre le faceva da agente amministratore mentre lei passava ore e ore chiusa in studio, lavorando in pubblico – perché molti non credevano fosse lei a dipingere- e dissertando coltamente con gli spettatori.
Cosimo de’ Medici, in cambio d’un quadro le donò una croce con 56 diamanti che venne posta dal padre nell’ “Armadio dell’Ammirazione”, zeppo d’oggetti preziosi donati alla figlia e mostrato ai visitatori come un reliquiario che provocava feroci invidie.
Carlo Cesare Malvasia, celebre esperto di pittura dell’epoca, la venerava definendola “prodigio dell’arte, gloria del sesso donnesco, gemma d’Italia, sole d’Europa, l’Angelovergine che dipinge da homo, ma anzi più che da homo”.
Vergine perché non s’era mai innamorata; tranne forse che d’un allievo del padre, il parmense Battista Zani, già promesso alla bolognese Ginevra che della pittrice era gelosissima.
Come gelosissimo era di lei suo padre, che non avrebbe mai accettato di dividerla con altri o di vederla andar via di casa.
Elisabetta iniziò a star male il giorno 11; il medico Gallarata diagnosticò una misteriosa “distillazione di catarro” da curare con “siroppo acetoso”.
Il 27 la crisi; urlava dal dolore, inizò a “sudare gelato”: il medico prescrisse “lavativi, unzioni del corpo, vomitivi e brodi”.
Si fece “negra l’estremità delle dita delle mani e dei piedi, mutò tutta colore”.
E il 29 la fine: “Dopo morta si gonfiò tutta e pareva fosse vecchia di 60 anni, e fra le altre cose gli si gonfiò anche il naso”.
Così testimoniò la zia al processo, perché ci fu un processo che appassionò tutta la Bologna d’allora.
Il padre accusò d’omicidio una cameriera, Lucia Tolomelli; testimoni l’avrebbero vista comprare una venefica polvere rossa e metterla nel pancotto, la cena di Elisabetta: forse una sicaria di Ginevra?
Lucia fu interrogata, torturata, il processo durò un anno; infine i patologi diagnosticarono “morte da ulcera perforata” causata da stress e iperlavoro.
La Tolomelli venne in ogni caso esiliata da Bologna e anche quando tornò, dopo il “perdono” e la morte del suo accusatore, ebbe per sempre la nomea d’avvelenatrice.
I funerali di Elisabetta furono “lacrimosi e solenni come quelli d’una santa papessa”: è sepolta nella chiesa di San Domenico a fianco di Guido Reni, idolo di suo padre.