All’epoca delle nostre Nonne (ormai anche Bis e Tris), vigeva l’ipocrita motto del si fa ma non si dice, ossia il trucco doveva esserci, ma non essere notato né soprattutto confessato.
Sui ripiani di marmo della “toeletta” troneggiava uno specchio di legno inclinabile che rifletteva una parata di barattoli dai nomi fascinosi quali Latte Verginale, Pomata d’Aspasia, Acqua del Serraglio …
E sul comodino, accanto alle Riflessioni della donna cristiana, facevano spicco altri libri di profonde meditazioni quali Guerra alle rughe o L’arte di esser bella, scritti ambedue da Donna Clara (Lattes, 1907), dai quali emergeva che il principale canone di bellezza muliebre fosse quello di possedere, come ora, una carnagione morbida e luminosa.
Così, per ammorbidire la pelle del viso le signore consumavano chili di cold-cream, fabbricata in farmacia.
La ricetta più classica, riportata da Il Profumiere (Ed. Pucci, 1901), era:
“Olio di mandorle dolci gr. 300; spermaceti gr. 40; paraffina gr. 40; cera bianca gr. 30; acqua di rose gr. 100; tintura di benzoino gr. 4″.
Il risultato era un’epidermide grassa ed untuosa come il fondo di una padella pronta ad accogliere un chilo d’acciughe; ma ciò piaceva molto, e nei romanzi d’allora si leggevano romantiche descrizioni quali “Il sole si rifletteva a specchio sul suo bel volto, facendolo risplendere come il mare di luglio“.
La celebre Acqua del Serraglio, pubblicizzata come “l’elisir orientale che usato su tutto il corpo al posto dell’acqua e sapone vi farà ugualmente brillare la pelle“, aveva invece come principali componenti acqua di rose e tintura di benzoino.
Considerando che allora il rapporto con la vasca da bagno non era dei migliori, l’uso continuato e poco lavato di questo prodotto dopo un po’ rivestiva l’epidermide di una vernice resinosa, simile a quella che serve per proteggere i legni delle barche, impedendo totalmente la traspirazione; molte spalle d’alabastro che brillavano nei palchetti dei teatri non appartenevano altro che a umane carene spalmate di flatting che ogni tanto, non certo per feminea ipersensibilità, svenivano.
Come cipria, si usava polvere di riso mescolata a bismuto per renderla aderente; famose erano quelle marca Leichner, grasse, indelebili, anche color violetto per la sera, così da trasformare leggiadre creature in tanti Nosferatu.
I fondotinta, detti “belletti bianchi“, invece di essere come ora tinta carne erano, grazie alla moda che imponeva incarnati nivei, tutti rigorosamente color biacca nonché velenosissimi poiché composti di zinco, argento e piombo.
Venivano spalmati a più strati su faccia, collo e, con gli abiti scollati, anche su spalle e seno; ma contenendo appunto piombo unito al solito bismuto con veci di collante, avevano pure la curiosa prerogativa di diventar neri venendo a contatto con gas o idrogeno solforato.
Così spesso accadeva che signore dalla nivea epidermide, dopo essere state troppo vicine a lampade a gas o aver fatto una capatina nel “camerino di decenza“, in cui per questioni igieniche l’idrogeno solforato abbondava, si tramutassero all’improvviso in tante negrette.
A loro volta i cosiddetti “belletti rossi” usati per guance, labbra e orecchie (furoreggiavano i “rosei lobi“), contenevano cinabro ossia solfuro di mercurio. Mentre i cosmetici schiarenti le macchie della pelle o le odiate lentiggini vantavano, tra i componenti, sublimato corrosivo, ossido di piombo, canfora e acido solforico.
In compenso le “emulsioni antirughe” erano a base di bicloruro di mercurio, nonché profumate con estratto di mandorle amare: solo che la mescolanza dei due elementi produceva cianuro di mercurio, il che acuisce ancor di più il sospetto che allora chi bella voleva comparire, dovesse pure rischiare di morire.
Ma anche questo faceva parte della selezione della specie, quella più benestante, visto che i prodotti e i trattamenti avevano un costo non indifferente e di certo non venivano usati da chi aveva già problemi di sopravvivenza causa fame e malattie date da indigenza…
Leggete ad esempio alcune “ricette naturali di bellezza” tratte dai Guerra alla rughe di Donna Clara (Ed. Lattes, 1907).
I titoli, ovviamente, sono miei…
Massaggi masochisti
“Gonfiate le gote il più possibile e fate profonde e rumorose inspirazioni, avendo l’avvertenza di respirare solo con le narici e afferrando a più riprese le vostre gote, dandovi pizzicotti via via più forti, intervallati da rapidi e ripetuti schiaffi. Per le rughe ai lati della bocca, avvolgete il vostro dito indice in un fazzoletto di seta, introducendolo in bocca in aderenza della guancia e in corrispondenza della ruga da combattere. Col pollice e l’indice dell’altra mano, pizzicate la ruga in senso orizzontale, stringendola il più possibile sino al punto di sentire un forte dolore molto fastidioso. Ma non demordete e continuate almeno per venti minuti”.
Vapori etilisti
“Fate arroventare una paletta di ferro; gettateci sopra della polvere di mirto; accogliete sul viso il fumo, coprendovi il capo con un tovagliolo come fate per i fumenti. Poi nuovamente riscaltate la paletta; quando sarà rovente, bagnatela con vino bianco secco e ricevetene il vapore sul viso, sempre col tovagliolo in testa. Ripetete questa operazione tre volte consecutive, per tre volte al dì, mattino e sera”
Maschera trucida
“Comprate dal macellaio un bel tocco di manzo giovine, meglio se filetto magro e fresco. Tagliatelo in sottili fette lunghe e strette e, al momento di andare a letto, applicatele sul viso, ben distese, ben aderenti, trattenendole ferme con garze legate dietro la nuca. Conservatele tutta la notte e staccandole la mattina imbevendole con acqua tiepida aromatizzata al rosmarino, riscoprirete la freschezza dei vostri sedici anni”
E se i sedici anni non fossero tornati, si potevano sempre servire a tavola al posto dell’arrosto.