Perché Pasqua pullula Uova nei Cibi, nei Giochi, nei Riti, nei Doni

L’uovo, dalla forma priva di spigoli e quindi senza principio né fine, è sempre stato considerato simbolo dell’origine della vita.

Romani in primavera festeggiavano Cerere, dea della fecondità della Terra, offrendole uova come doni propiziatori del ciclo delle rinascite.

E proprio come simbolo di nuova nascita (e quindi di Resurrezione) l’uovo fu uno degli emblemi del Cristianesimo sin dai suoi primordi: nelle catacombe sono state trovate uova di marmo (alabastro o altre pietre), simbolo di nuova vita.

L’uso di scambiarsi uova in dono nel periodo pasquale risale invece al Medioevo; la Chiesa, nelle severissime regole del digiuno quaresimale, le aveva proibite.

Ma le galline, che di ogni precetto religioso erano ignare, continuavano tranquille a sfornarne (soprattutto se la Pasqua era “alta” e loro avevano terminato il “riposo” invernale) e così, soprattutto nelle case contadine, durante le 6 settimane di digiuno ne veniva messo da parte un numero abnorme che – una volta arrivata Pasqua–  era assolutamente da smaltire in maniera rapida.

Questo spiega perché i cibi tradizionali pasquali delle nostre regioni ne siano ricchissimi.

Dalla Pizza di Terni al Casatiello napoletano; dalla Pagnotta forlivese alla Crescia Brusca marchigiana; dal Pan Giallo alla Panina Unta toscani alla Torta Pasqualina genovese e così via.

Ovunque il primo solenne (e bramato) “romper del digiuno” consisteva nel mangiare la mattina di Pasqua – al sciogliersi delle campane – un uovo sodo.

Questo, per render più solenne e particolare la cosa, veniva lessato insieme a vegetali per colorarlo di tinte tenui; bietole per il verde, barbabietole per il rosso, zafferano per il giallo.

Un cestino zeppo di uova colorate veniva portato in chiesa alla prima messa, per esser benedetto.
Altre scambiate in dono fra amici e vicini.

In Liguria venivano fatti i canestrelli, cerchietti in pastafrolla dotati di buco ove veniva posto un uovo colorato; i bimbi genovesi, reggendo solo il canestrello, organizzavano corse per i ripidi carrugi: vinceva chi arrivava al traguardo senza aver fatto cadere l’uovo.

E sempre per smaltir le uova in esubero, si organizzavano nelle aie – oggi in piazza – giochi che le vedevano protagoniste.

Ad esempio, la mattina di Pasqua a Urbania (Marche) si svolge il “Punta e cul”; una ventina di concorrenti in cerchio, muniti di due uova sode a testa, che debbono tentare di rompere le altrui picchiandole a vicenda prima con la punta e poi col fondo.
Un gioco simile c’è nel piacentino e si chiama “Ponta e cull”.

In Friuli si gioca la Righea, un incrocio fra bocce e biliardo da giocare con uova sode colorate.

Tredozio (Forlì) il Palio dell’Uovo; una serie di gare, corsa dell’uovo, battitura dell’uovo, lancio di uova fresche, e il campionato dei mangiatori di uova sode (record da battere: 19 in 3 minuti).

Infine nelle Langhe e nel Monferrato permane l’antico rito del Cantè j’euv (Cantar le uova); nelle notti di fine Quaresima, gruppi di giovani vagano di cascina in cascina muniti d’un grosso cesto, chiedendo agli abitanti di donar loro uova in cambio di serenate.

Se il dono sarà abbondante, i canti augureranno salute e prosperità: altrimenti verranno loro minacciate “figlie zitelle” e, terribile maledizione, “che si secchi il popò alle galline”.

© Mitì Vigliero

Qui la mia Storia dell’Uovo di Pasqua

Abboffate Carnascialesche: Cibi Italiani Tipici del Carnevale.

“Carnevale”, come abbiamo visto, deriva il suo nome da “carnem levare”, togliere la carne, preannuncio dei successivi 40 giorni di Quaresima in cui un tempo il digiuno e il mangiar esclusivamente di magro era regola ferrea e rispettata.

Per questo motivo in tutta Italia il popolo faceva, a mo’ di cammello con l’acqua, il pieno di proteine, calorie e grassi contenuti in quelli che sono i cibi tipici e rituali di questo periodo, molti ormai quasi dimenticati.

Uno degli ingredienti basilari era il maiale, grande ricchezza familiare, scannato poco prima e immediatamente tramutato in prosciutti, salami eccetera.

La festa dava allora l’occasione di consumarne in fretta  le parti che si sarebbero deteriorate durante la quarantena di magro; perciò in Basilicata, ad esempio, cibi tipici del periodo erano il fegato cotto alla brace, la minestra di ossa, il “sartasc’niedd” (soffritto di varie interiora), la “rafanata” (uova, formaggio, rafano e salsicce) e, come dolci, “u sanguinacc” (il cui ingrediente base è il sangue di maiale arricchito da mandorle, pinoli, cioccolato, uvetta, noci, fichi secchi,cannella, zucchero) e “la f’cazz cu l’frètt’l”, una sorta di torta fatta di pasta lievitata, ciccioli (frètt’l in dialetto, ), zucchero a velo e cotta al forno.

In Lucania, non mancavano mai “li maccarone a ferrètte o ca la giònca” (paste fatte in casa, spaghettini bucati da un ferretto e lunghi un palmo i primi, fusilli i  secondi) conditi con un “rraù”(ragù) con tutte le interiora “de lupòrc”.

In Veneto ingredienti obbligatori del Carnevale sono da sempre “maiale, vin bon e fritole”, oltre bigoli gnocchi; a Brescia lombate, sanguiinacci e ciccioli; in Sardegna lardo e fave; in Liguria “costiggeue (braciole) de porco” e in Puglia i “panzerotti” fritti, ripieni di carne macinata di maiale.

Dal giovedì al martedì – settimana non per nulla detta “grassa” – si friggeva furiosamente in tutto lo Stivale, e più che nell’olio nello strutto che andava fatto fuori in fretta perché durante la lunghissima quaresima, non essendoci frigoriferi, sarebbe sicuramente irrancidito.

Fritti carnascialeschi per eccellenza sono quei dolci comuni in tutta Italia, che hanno praticamente uguali la ricetta e gli ingredienti (farina, uova, zucchero) ma variano nei nomi chiamandosi  chiacchiere (Sicilia, Piemonte, Lombardia, Campania); bugie (Liguria), lattughe (bresciano), ciarline (Emilia), ‘ncartellate (Calabria), fiocchetti (Romagna), cenci (Toscana), frappe (Lazio), galani (Veneto), sfrappole (Bologna), frijoli (Sassari), fatti-fritti (Oristano), crostoli (Friuli Venezia Giulia).

Altri dolci più morbidi e spesso ricchi di vari ingredienti come crema, pinoli, uvetta, ma sempre rigorosamente fritti sono i “tortei” lombardi, le frittole della Venezia Giulia, le castagnole romane e umbre, nonché la cicerchiata (Marche, Abruzzo, Lazio, Umbria), che coi ceci non c’entra nulla se non per la forma a palline gialle.

Poi arrivava il Mercoledì delle Ceneri: tutto questo bendiddio scompariva ed il fegato, sentitamente, ringraziava.

© Mitì Vigliero