Le Signore dell’Eutanasia
In Gallura, nel Museo Etnografico di Luras (SS) – dal cui sito ho tratto l’immagine lì sopra- sono ricostruiti perfettamente ambienti domestici che vanno dal ‘600 alla prima metà del ‘900; strumenti di lavorazione del sughero, telai, cucine piene di paioli e rami, sala da pranzo, camera da letto …
Qui, sullle bianche lenzuola ricamate del talamo matrimoniale, fra scaldini e camicie da notte, vi è un oggetto che apparentemente pare non aver nulla a che fare col resto.
Una sorta di martello di legno scuro, lucidato dall’uso, lungo circa 40 cm, che pare dimenticato da qualcuno vicino ai cuscini.
Eppure c’entra; perché nel letto, da sempre, si dorme, si ama, si nasce, si giace malati e quasi sempre si muore.
Ed è proprio legato alla malattia e alla morte quel rozzo martello; un’usanza che pare incredibile oggi, ma che sino a non molti anni fa nella rurale Sardegna, dove la povertà disperata e l’ignoranza convivevano negli gli stazzi isolati della campagna e quindi lontanissimi da ogni forma di cura medica civile, era diffusa.
Quel martello veniva usato da “li fèmini agabbadori” o “sas accabadoras” (in sardo settentrionale); il nome deriva dal verbo “accabare”, “picchiare sul capo; finire”.
Con quel martello, appunto.
Che viene chiamato “mazzoccu” nel nuorese e “mazzocca” in campidanese e che l’Agabbadòra, chiamata dai parenti di un moribondo, usava per porre fine alle sue sofferenze.
Molta è la letteratura dedicata all’argomento; ad esempio il bel libro di Franco Fresi o quello di Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano.
Ma anche le cronache antiche di Eschilo e Zenodoto già parlano della consuetudine dei cartaginesi abitanti dell’isola “Sardona” di sacrificare a Saturno i vecchi; anche Timeo narra che fosse “costume dei Sardonii far precipitare i parenti più stretti, anziani e malati, dall’alto d’una rupe, mentre i figli ridevano enfatizzando una finta felicità” (“riso sardonico”).
E molto più tardi tanti furono gli antropologi che accennarono all’uso – non più cerimoniale pubblico ma strettamente privato – delle Agabbadòre.
L’inglese ammiraglio William Henry Smyth (1828), nel suo diario di viaggio
Sketch of Sardinia, scrive: “Nella Barbagia v’era la straordinaria usanza d’uccidere una persona morente nei casi disperati; quest’atto era compiuto da una salariata chiamata accabadòra o finitrice”.
Lo stesso fa il piemontese Alberto Della Marmora (1836) mentre l’abate Vittorio Angius, nel “Dizionario geografico degli Stati di SM il Re di Sardegna” (1883), parla di “cotanta barbarie” subìta non solo dai vecchi, ma da qualunque malato giudicato terminale.
L’Agabbadora – che nei paesi era esperta anche come ostetrica, e in quei casi diveniva levatrice al contrario – arrivava sempre nel cuore della notte e posava il suo strumento sul davanzale esterno della finestra della camera del malato, dove i parenti l’attendevano.
Pronunciava ad alta voce “Deu ci sia” (Dio sia qui), e faceva uscire tutti dalla stanza.
Poi si segnava devotamente, apriva la finestra, prendeva il mazzoccu e s’avvicinava al capezzale del malato, assestandogli sulla fronte o sulla tempia un secco e rapido colpo.
Infine se ne andava, senza dire una parola.
L’ultimo verbale di polizia che riferisce una simile storia risale al 1952, campagna di Orgosolo.