I Testi Afrodigastrici nell’Arte

Il ragù della Signora Piscopo

di

Eduardo De Filippo

tratto da “Sabato, domenica e lunedì”, atto I

Ampia e linda cucina. L’arredamento è costituito da cose anche modernissime.
Sulla parete di fondo, accanto al finestrone, sono state disposte in ordine simmetrico una diecina di antiche forme in legno di cappellì e numerosi attrezzi del mestiere.
Sul medesimo punto ci sta un fornello di ferro a quattro zampe, malfermo e arrugginito, e un piccolo tavolo dal ripiano massiccio unto e bruciacchiato dall’uso.
Siamo alla conclusione di una magnifica giornata di marzo. L’ultimo sole che entra dall’ampia finestra indora le pareti e fa brillare la nutrita batteria di pentole in rame, fuori d’uso, che è lì, tutta intorno, al solo fine di testimoniare l’antica tradizione e la solidità finanziaria della famiglia Priore.
Presso il tavolo centrale c’è donna Rosa che sta preparando il rituale ragù.
Sta legando il girello, «il pezzo d’annecchia» (cinque chilogrammi) che dovrà allietare la mensa domenicale dell’indomani.
Virginia la cameriera gomito a gomito con la padrona affetta cipolle; ne ha già fatto un bel mucchio: ma ne deve affettare ancora.
La poverina ogni tanto si asciuga le lacrime o con il dorso della mano o con l’avambraccio: ma continua stoicamente il suo lavoro
.

Rosa: Hai fatto?

Virginia: (piagnucolando) Devo affettare queste altre due.

Rosa: E taglia, taglia… fai presto.

Virginia: Signo’, ma io credo che tutta questa cipolla abbasta.

Rosa: Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù. Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione.

Virginia: ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme.

Rosa: E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la Pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se I’uccidevano. Lei usava o il «tiano» di terracotta o la casseruola di rame. L’alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di «annecchia» e lo metteva in una sperlunga; come si mette un neonato nella «connola», poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.

Virginia: (compiacente) Certo, quando uno ci tiene passione.

Rosa: E quello papà, se non trovava il ragù confessato e comunicato faceva rivoltare la casa.

Virginia: Povera mamma vosta!

Rosa: Ma era pure il tipo che ti dava soddisfazione. Venivano amici e dicevano: «Signo’ ma come lo fate questo ragù che fa uscire pazzo a vostro marito! L’altra sera ci ha fatto una testa tanta «E, il ragù di mia moglie; di sotto, e il ragù di mia moglie sopra…» e mamma’ tutta contenta l’invitava; e quando se ne andavano dicevano: «Aveva ragione vostro marito». E si facevano le croci.

Virginia: Vostro marito invece non ci va tanto appresso.

Rosa: (con ironica amarezza) Don Peppino non parla; don Peppino è superiore a queste cose. Però si combina un piatto accoputo di Ziti così… e qualche volta pure due.

Virginia: Pe’ mangia’, mangia.


Esistono dei brani letterari o sequenze cinematografiche in grado di stimolare immediatamente l’appetito.

Quello che ho riportato qui sopra, tratto da una delle commedie che più amo di De Filippo, su di me ha un vero effetto afrodigastrico (afrodisiaco per lo stomaco ;-); ogni volta che lo leggo vengo colta dal languore e addirittura mi pare di sentire il profumo, di quel ragù.

E mi viene immediatamente, oltre che fame, anche voglia di cucinarlo.

Avete mai provato una sensazione simile? E se la risposta è sì, con quale testo o scena?

L’indimenticabile Gilberto Govi

Nel 1966 moriva a Genova Gilberto Govi (vero nome Amerigo Armando), uno degli attori più amati dagli italiani e che Leonida Repaci definì “un demonio che saprebbe far ridere a crepapelle anche se recitasse per tre atti la tavola pitagorica”.

Era nato nel 1885: sorprendentemente portato per il disegno, da ragazzo aveva studiato all’Accademia di Belle Arti e subito era stato assunto come disegnatore dalle Officine Elettriche Genovesi.

Ma  la sua strada era decisamente un’altra: quella del palcoscenico.

Infatti faceva parte dell’Accademia Filodrammatica del teatro Nazionale dove si recitava obbligatoriamente in perfetto italiano: l’Accademia aborriva il dialetto, Govi lo adorava e così fondò una Compagnia tutta sua chiamata “La Dialettale“, con la quale recitava nei fine settimana e dove conobbe Caterina Franchi, in arte Rina Gaioni: si sposarono, e per 49 anni divisero sia la vita che la scena.

Govi se ne andò dall’Accademia il giorno in cui, convocato dai capi, questi gli dissero: ”Scegli: o noi o il dialetto“.
Fortunatamente per noi scelse quest’ultimo e, per la cronaca, trent’anni dopo l’Accademia lo nominò Socio Onorario.

Lina Volonghi era solita ripetere:
“Quando la gente e i critici lodano il mio senso di responsabilità e disciplina, lodano Gilberto Govi. Da lui ho imparato i tempi comici, il rispetto per il pubblico, il donarsi con estrema semplicità e grande sacrificio.”
Essendo entrata nella Compagnia da giovanissima, e provenendo da una famiglia semplice, senza studi e cultura teatrale, Govi fu per lei Maestro di vita: a Napoli, parliamo dei primi del ’900, la spedì a vedere i De Filippo definendoli “tre fratelli bravissimi che recitano al San Nazzaro: nessuno ancora li conosce fuori di Napoli, ma andrebbero proprio portati in trionfo perché sono bravi”.

E poi Carlo Campanini, che con Govi divideva l’amicizia di Macario; e poi ancora Walter Chiari, Paolo Stoppa, Dina Sassoli, Alberto Sordi,  che con lui girarono nel ‘47  Che tempi! (alias Pignasecca e Pignaverde).

Da queste e altre testimonianze risulta il vero carattere dell’uomo in modo più illuminante di un qualsiasi testo di critica teatrale, e indubbiamente del teatro Govi fu un mitico interprete.

Sì, fece anche cinema: oltre i film citati, anche  Colpi di timone con Sergio Tofano e  Il diavolo in convento girato nell’abazia di San Fruttuoso di Camogli assieme a Carlo Ninchi e Mario Pisu.
Film carini, ma niente a che vedere con il suo ambiente naturale, il palcoscenico.

Gilberto Govi fu accusato dalla critica ufficiale di essere un pigro che rappresentava sempre le stesse commedie: innanzitutto ciò non è vero, visto che in 50 anni di carriera “mise su” ben 81 commedie diverse.

E se la gente si diverte ancora oggi alla follia nel vedere in DVD Pignasecca e Pignaverde, Quello Buonanima, Colpi di timone, Sotto a chi tocca, Gildo Peragallo ingegnere e soprattutto il celeberrimo I manezzi pe majâ ‘na figgia, ciò significa che si tratta di testi validissimi e intramontabili.

Nel 1957 la televisione sperimentò la ripresa diretta delle sue commedie a teatro: fu un trionfo incredibile in tutta Italia, con record d’ascolti mai più raggiunti da altre rappresentazioni simili.

Ben sedici testi teatrali che riscossero un enorme successo di pubblico, e c’è da scommettere che se la Rai ne riproponesse oggi qualcuna lo share sarebbe ugualmente sorprendente perché, come disse il regista Vittorio Brignole:
“Govi davanti alle telecamere era diverso dal Govi davanti al suo pubblico? E’ una domanda che potrebbe essere rivolta a quelli che I Manezzi li hanno visti a dieci anni con la madre, a venti con la fidanzata, a trenta con la moglie, a quaranta con la figlia, a cinquanta con l’esperienza di una vita passata ad amare un attore, e non hanno trovato alcuna differenza”.

Il suo modo di gestire la  Compagnia era un capolavoro di piccola imprenditoria forma cooperativistica, in cui i guadagni venivano suddivisi fra gli attori e i tecnici; non godendo affatto di appoggi politici e sovvenzioni, bisognava amministrarla come una ditta.

Difatti Govi, con i suoi attori si comportava come un Presidente d’azienda: paziente, gentile ma senza dare la minima confidenza.

Tutti lo chiamavano Commendatore e il suo “voi” rivolto a loro era imperativo non per ordini di regime, ma perchè in genovese si usa così.
Ogni giorno si recava puntualissimo a teatro come si recasse in ufficio: finite le prove o le recite salutava e con la Rina se ne tornava a casa dai  cani, tutti amatissimi randagi da loro adottati.

Si comportava come un distinto professionista borghese che non parlava mai male dei colleghi, anzi si arrabbiava molto se qualcuno metteva in dubbio la bravura altrui; ma soprattutto detestava i pettegolezzi e le malignità, possedendo un sacro nonché raro (per l’ambiente) culto per il riserbo altrui.

Dicevano anche che fosse mostruosamente tirchio, leggendaria nomea affibbiata a tutti i genovesi.

Innanzi tutto si dice parsimonioso; magari era quello che se doveva comprarsi un paio di scarpe nuove cadeva in crisi e non amava sprecare miliardi in costumi od orpelli inutili di scena.
Era quello che con l’amico Amedeo Garbarino (mio bisnonno) al Circolo del Tunnel aveva inventato l’indimenticabile “gag” (presente poi in Pignasecca e Pignaverde) del sigàro fumato in verticale per farlo durare di più.

Però, di nascosto e senza andare a strombazzarlo in giro, quasi tutte le mattine chiamava il suo fido portinaio Lino e lo mandava a spedire “un assegno qua, un vaglia là“: tutta beneficenza destinata a colleghi in disarmo, ospedale Gaslini e associazioni per la protezione animali.

Il suo modo di recitare era unico.

Gli autori delle commedie come Bacigalupo (I manezzi), La Rosa (Colpi di timone), Acquarone (Bocce,  l’unica commedia recensita dalla “Gazzetta dello Sport“), Bassano (Il porto di casa mia) e altri, non avevano vita facile.
Govi ne rielaborava i testi, li traduceva in genovese e soprattutto aggiungeva battute: se vedeva che avevano successo, tra un atto e l’altro correva dal suggeritore e gli intimava “Questa, a copione!”.

Ovviamente non tutti ne erano felici: uno di questi, Carlo Bocca, dopo la prima di una sua commedia s’imbufalì talmente per le variazioni fatte che lo aspettò fuori da teatro e gli mollò un ceffone tremendo.
Morale, Govi incassò lo schiaffone, però  non mise mai più in scena una commedia di Bocca.

Durante la prima e la seconda guerra mondiale organizzò molti spettacoli per le forze armate, soprattutto in Emilia, terra d’origine dei suoi genitori; un carro di Tespi con sede a Bologna che portava la Compagnia a fare spettacoli nelle varie caserme dislocate nella regione.

Il palcoscenico veniva costruito di volta in volta con tavole, senza sipario, la platea regolare con migliaia di posti a sedere e i camerini, costruiti in legno come cabine balneari, con gli attaccapanni e il tavolino per il trucco.

Quest’ultimo per Govi era fondamentale: sfruttando la sua abilità pittorica, riusciva da solo e in mezz’oracambiarsi completamente i connotati.

Vari colori di cerone, matite grasse; manovrava con i pollici, spalmava, tirava, sfumava ed ecco venir fuori gli zigomi, spuntare il mento, sparire la gola.
Aveva di natura un viso grande un po’ quadrato:  col trucco lo faceva diventar piccolo e rotondo come una prugna secca.

Interpretando alcuni personaggi riusciva addirittura ad accorciare materialmente il suo corpo: al momento degli applausi finali si tirava su e si allungava di quindici centimetri.
Ma soprattutto erano gli occhi la sua grande forza espressiva: quelli non li truccava mai, li lasciava liberi di muoversi, ammiccare, luccicare come se avessero avuto una lampadina dentro.

Valeria Moriconi disse: ”Ho di Govi un ricordo nettissimo: in particolare dei suoi occhi e dei suoi incredibili sopraccigli; Govi parlava con tutto il suo modo di essere, parlava con le mani e parlava pure con i sopraccigli. Parlava pure quando stava in silenzio“.

Infatti bastava una sua occhiata per far esplodere dalle risate il pubblico e, più di una volta, anche gli altri attori in scena che andavano a “bagnomaria“, rischiando cioè l’amnesia totale e il soffocamento a causa di furiosi attacchi di ridarella trattenuta, poiché aveva la capacità di rendere teatralmente preziosi persino gli incidenti scenici e le famigerate “papere“.

Una volta rimase per un’ora in scena con una mosca che ronzava impazzita perché gli era rimasta imprigionata tra la “coccia” (parrucca dura e tonda come un elmetto) e la testa; non potendo darsi una manata sul cranio per schiacciarla né strapparsi pubblicamente la coccia, recitò in modo più agile, veloce e arzillo del solito costringendo tutti gli altri a seguirlo frenetici.

Un’altra volta, invece di dire “Facciamo un patto” disse “Facciamo un tappo“: per rimediare la topica si mise a parlare ininterrottamente di tappi e patti, inventando battute, improvvisando tanti di quei discorsi e gesti che alla fine il suggeritore stremato lanciò per aria il copione e se ne andò, mentre il pubblico esplodeva in un mega applauso a scena aperta.

A proposito di papere è rimasta memorabile quella di Sergio Fosco, marito di Anna Caroli (indimenticabile Cùmba, la donna di servizio nei Manezzi) e padre di  Gian Fabio (il futuro Gian della coppia comica con Ric); tutti e tre attori della Compagnia di Govi.

Stavano recitando Bocce al teatro Carignano; Govi lanciava la boccia sul pallino e Fosco doveva gridare entusiasta:
”Sciu padrun, bravìscimu: a vegne drita drita in sciu ballìn!” (“Signor padrone, bravissimo: viene dritta dritta sul pallino!”)

Ma quella sera cambiò in “e” la “a” del “ballìn“.

Tutti gli  attori fuggirono dal palcoscenico in preda a convulsi di riso e Govi, rimasto solo in scena,  urlò ridendo come un matto:
“Aleé! U savèivu che ‘na vota o l’atra ti l’avièsci dita!”, “Lo sapevo che una volta o l’altra l’avresti detta!”.

Fortunatamente erano a Torino, pochi compresero: e se anche ora qualcuno di voi non capisce, usi la fantasia. ;-)

La critica laureata accusò infine Govi di avere il “limite” del dialetto: oggi possiamo dire che in realtà il suo fu grande teatro, quello che si fa amare e comprendere dappertutto nonostante il linguaggio, come il veneziano di Baseggio, il milanese di Ferravilla o il napoletano dei De Filippo.
Govi rese allora comprensibile e famoso anche il genovese perché, con estrema naturalezza, aveva il dono di farsi capire non solo in tutta Italia, ma anche a Parigi Buenos Ayres.

E se lo spettatore non afferrava proprio tutto alla lettera, poco importava.

Pietro Palmieri
, altro attore della Compagnia, raccontava che dopo la rappresentazione di una commedia all’Odeon di Milano era andato a prendere un cappuccino al , un bar in Galleria:
“Lì vedo due signori che s’incontrano e l’uno dice all’altro: “Sei andato a vedere Govi? E cosa hai visto?”.
L’illuminante risposta fu:
So ‘na got, ma ho ridù tant, ridù tant, che rid anch’a mò“.

© Mitì Vigliero

Nota:

Libri consigliati: Lui, Govi di Cesare Viazzi (Sagep) – Il Teatro di Govi, S. Bassano (Erga)

Le immagini di Govi sono state tutte trovate in rete.

Qui invece ho trovato  tutta la commedia “I manezzi pe majâ ‘na figgia”: buon divertimento!

Storia del medicinale più conosciuto al mondo: l’Aspirina

Già Ippocrate di Kos (460-377 aC)  consigliava come antidolorifico alle partorienti sofferenti per le doglie di bere un infuso di foglie di “Salix Alba Vulgaris” (salice, contenente acido salicilico, ma questo il medico ateniese non lo sapeva);anche Plinio attribuiva al salice proprietà analgesiche e Dioscoride, I sec d.C., lo prescriveva per combattere febbri e “eccitazione sessuale”.

 L’uso del salice come pianta medicamentosa venne ignorato dalla medicina medioevale; editti speciali proibivano la raccolta dei rami per altro uso che non fosse quello della costruzione di ceste.

Nel XIII sec. i medici della Scuola Salernitana ne riesumarono l’uso in modo curioso, prescrivendolo nei conventi; questo perché pensavano che il salice fosse un antiafrodisiaco, annientatore di ogni  libidine.

In Italia questa convinzione (una delle prime leggende metropolitane della storia) durò a lungo; il medico senese Mattioli nel 1600 prescriveva foglie di salice tritate e mescolate a vino e pepe per lenire il “dolore dei fianchi”, che non era il mal di reni ma il desiderio sessuale represso.

E anche lo scienziato illuminista Giovanni Pietro Fusanacci nel 1784 asseriva che “il sugo cavato dai rami teneretti allontana egregiamente le libidinose voglie”.

Ma quasi contemporaneamente a Chipping Norton, Oxford, un pastore protestante appassionato di botanica, Edward Stone, un dì passeggiando in un bosco decise di masticare un pezzetto di corteccia di salice; mentre la sputava disgustato pensò che il sapore era assai simile a quello amaro della cinchona, la pianta peruviana del chinino, unico antimalarico conosciuto allora.

Così, dopo averne sperimentato il decotto su 50 malati, il 2 giugno del 1763 presentò alla Royal Society di Londra un saggio in cui dichiarava quanto la febbre di questi fosse rapidamente diminuita.

Un’involontaria spinta agli studi di ricerca venne data da Napoleone che nel 1803 proibì qualunque importazione di merci dai territori inglesi, chinino compreso.

Cercando freneticamente un sostituto autoctono nel 1828 a Monaco di Baviera il chimico Johannes Buchnder bollendo del salice ne ottenne una materia gialla che battezzò “salicina”; nel 1829 un farmacista francese, Leoroux, la isolò in forma cristallina composta da glucosio e alcool salicilico (500 gr. di scorza di salice davano 30 gr di salicina).

Nel 1838 il chimico calabrese Raffaele Piria scoprì l’acido salicilico e nel 1853 il francese Gerthardt produsse l’acido acetilsalicilico puro che abbassava sì la febbre, ma ammazzava i pazienti con emorragie gastrointestinali.

Finalmente nel 1897 un giovane chimico della Bayer, Felix Hoffmann, combinando l’acido salicilico con l’acido acetico (acetilazione) sintetizzò chimicamente l’ASA (acido acetilsalicidico, questa volta abbastanza ben tollerato dagli stomaci umani).

Il 23/1/1899 la Farbenfabriken di Friederick Bayer & C. battezzò il farmaco Aspirina (“a da acetil e “spir”, da acido spireico sinonimo di salicilico e il suffisso -ina , molto usato nei nomi dei medicinali di allora); il 1° febbraio ne depositò il marchio all’ufficio imperiale brevetti di Berlino e il 6 marzo mise in commercio la prima confezione di aspirina da 500 mg

Da allora ne sono state consumate centinaia di migliaia di compresse, e attorno a lei – come capita a tutte le famosissime dive – sono nate pure altre varie leggende metropolitane che spesso la abbinano alla bibita più famosa del mondo, la Coca Cola, la cui storia vi racconterò appena mi passerà l’influenza.

©Mitì Vigliero